lunedì 2 novembre 2015

Mafalda e il paradosso dello zero

Leggendo un interessante scritto di Bruno D’Amore (Dipartimento di Matematica, Università di Bologna) "Lo zero, da ostacolo epistemologico ad ostacolo didattico" mi sono imbattuta in questo curioso dialogo, durante il gioco "Io dico un numero… Tu a che cosa pensi?", tra un Ricercatore (R) e Mafalda (M nome di fantasia di una bimba di 4 anni):





R: Numero quattro.
M: Io ho quattro anni.
R: Numero cinque.
M: Non lo so… però anche cinque caramelle.
R: Numero due.
M: I piedi che ho.
R: Numero dieci.
M: (allegrissima, mostrando le mani aperte) Le dita delle mani.
R: Numero uno.
M:  (dapprima pensierosa, poi si tocca il naso) Il mio naso.
R: Numero sei.
M: I colori.
R: Numero otto.
M: Otto signori.
R: Numero zero.
M: I bambini qui. Ci sono io e poi zero.
R: Che vuol dire zero?
M: Che non c’è niente. Vedi? (Mostra le due mani chiuse a pugno) Non c’è
niente.
R: Tu sai come si scrive il numero dieci?
M: Sì. Con uno zero e un uno. (Con le dita finge di scrivere per aria zero e
uno).
R: Allora zero vuol dire nulla?
M: No, zero vuol dire tanto.
R: Ma come, avevi detto che zero vuol dire niente, adesso vuol dire tanto?
M: No, non capisci… Zero vuol dire niente, ma vuol dire tanto. Se tu mi dai
zero caramelle mi viene una panciona grande grande.
R: Ma come, non capisco. Come fa zero a voler dire tanto?
M: Quando tu dici dieci c’è zero che vuol dire tanto. Sì, vuol dire tanto quello
zero.
R: Allora cento vuol dire tanto tanto?
M: No, non lo so cosa vuol dire quella parola.
R: Cento vuol dire un numero che si scrive con uno e poi zero e poi ancora un
altro zero. Allora è tanto o è poco?
M: Io non lo sapevo. Allora cento è più di dieci e allora zero vuol dire tanto
tanto.
R: E mille?
M: Come si scrive?
R: Con uno e poi zero zero zero. Qui come funziona?
M: Che allora zero vuol dire tanto tanto tanto perché è più più più di dieci.



Mafalda e lo "zero" - immagini tratte da 

Questa conversazione dimostra sorprendentemente non solo l'uso spontaneo dello zero da parte dei bambini fra i 3 ed i 6 anni  ma soprattutto appare molto evidente la doppia natura dello zero percepita da Mafalda, sia come cardinale del vuoto, del nulla, sia come cifra per accrescere i numeri.
E dimostra soprattutto come le due concezioni siano entrambe presenti, distinte e palesi e come Mafalda mostri grande destrezza nel maneggiare questi due aspetti, facendo una distinzione esplicita tra essi.
E' evidente che ci sia una totale consapevolezza dello zero come cardinale e come cifra, prima dell’ingresso nella scuola primaria.
Da altre conversazioni proposte si evidenzia che, anche se non tutti i bambini intervistati sanno scrivere i numerali da 1 a 9, quasi tutti sanno scrivere zero, per lo meno sanno che zero si rappresenta con “un tondo”. 
Nel rappresentarlo, però, è totale l’uso della forma oblunga corretta e non è affatto diffusa una forma rotonda a mo’ di circonferenza .
La maggior parte dei bambini sa associare lo zero a “niente”, inteso alle volte come assenza di azione o di oggetti ("Non si fa niente, zero", "Zero anatroccoli", "Zero soldi"....). 
Interessante, a questo proposito l’espressione di un bambino che, giocando a fare le somme, al momento di dare risposta alla 5 + 0 dice 5 e mostra una mano con tutte le 5 dita distese e l’altra mano con le dita a pugno per indicare zero.
Quasi tutti i bambini considerano lo zero un numero e molti, riferendosi alla scrittura dei numeri, dicono che lo zero serve per scrivere i numeri.
La quasi totalità degli intervistati dimostra di riconoscere lo zero in un numero scritto e mostra di saper scrivere numeri con lo zero.
Quasi tutti hanno mostrato di intuire il valore posizionale dello zero nella scrittura dei numeri.
Un certo numero di bambini dimostra di essere consapevole delle proprie capacità ("Io so come si fa", "Io so come si scrive"....).

A conclusione di queste osservazioni mi sorge spontanea una domanda: "Ma come è possibile che una bambina di 4 anni riesca così bene a percepire la doppia natura dello zero, sia come cardinale del vuoto, del nulla, sia come cifra per accrescere i numeri?"
Come è possibile vista l'idea della complessità dello "zero", data anche dal fatto che, come segno matematico, entrò con difficoltà nella cultura europea e che proprio questo doppio aspetto ha permesso allo zero di servire come luogo d’ambiguità fra un carattere vuoto e un carattere per il vuoto.
Lo zero rappresenta infatti la non presenza dei numeri 1,2, ...,9 e contemporaneamente produce l'intera progressione potenzialmente infinita degli interi.
Ma tornando ai bambini, sorprende ancora di più questa loro consapevolezza "naturale" dello zero riflettendo anche sul fatto che se per loro e per Mafalda è una vera e propria cifra, nel sistema babilonese antico il segno introdotto significava solo “assenza” senza alcuna funzione di numerale. 
Potrebbe sembrare una differenza da poco, ma non lo è e accettare un segno specifico che indica vuoto o nulla o assenza come una vera e propria cifra che indica un segno numerale, può essere considerato un vero atto di coraggio culturale e filosofico. 
Neppure i Greci, i più grandi matematici della storia, concepirono lo zero come numero (anche se non tutti gli storici sono concordi). I loro numeri partivano da due, dato che per essi "il numero era molteplicità" dunque uno non è un numero (e zero meno ancora, non ce n’era neppure l’idea).
Spesso si dice che questo fatto è connesso al terrore filosofico che i Greci ebbero del nulla, del vuoto, dell’assenza, concetto che entrava in forte contrasto con la filosofia parmenidea (l’Essere, unità e totalità, eterno, di cui si può predicare solo che “è”) che dominò il loro pensiero filosofico.
I bambini con la loro immediatezza e spontaneità non si preoccupano di temi filosofici e riescono a percepire concetti matematici che purtroppo poi proseguendo nella scuola vengono distorti o resi di difficile assimilazione.

Il tema del Carnevale della Matematica di novembre, ospitato da MaddMaths,  "I concetti indispensabili della matematica", mi ha fatto ripensare all'importanza dello zero, basilare e indispensabile per introdurre opportunamente l'insegnamento della matematica.
Opportunamente perché lo zero può essere considerato un ostacolo epistemologico.
Come ricordavo lo zero, come entità numerica posizionale, era assente presso tutte le popolazioni antiche, compresi Greci e Romani, ed apparve solo nel VII sec. d. C. in India o meglio in Cambogia, come rivelano recenti scoperte.


Alexander de Villa Dei nel 1240 circa (o 1225) scrive la Canzone dell’Algoritmo (Carmen de Algorismo) 
letta e riletta nei conventi e nelle università da chiunque si occupasse di aritmetrica
Prima significat unum; duo vero secunda;
Tertia significat tria; sic procede sinistre
Donec ad extremam venias, quae cifra vocatur.¹

Se cerchiamo di fare una veloce carrellata storica (maggiori informazioni qui) ci accorgiamo infatti che la prima comparsa dello zero risale all’epoca dei Sumeri, cioè a circa 3 mila anni fa. Era un simbolo della scrittura cuneiforme, formato da due incavi inclinati che indicava l’assenza di un numero.
Un simbolo simile era utilizzato di tanto in tanto anche dagli Egizi, ma soltanto tra altri numeri, mai all’inizio o alla fine di una serie. 
Le antiche civiltà cinesi non avevano uno zero vero e proprio, ma l’uso dell’abaco, il precursore della calcolatrice, fa supporre che comunque fosse noto il concetto di valore nullo. 
I Maya, al contrario, avevano un simbolo, ma non lo utilizzavano nei calcoli. 
Lo sviluppo dello zero in senso moderno va fatto quindi risalire alla cultura Hindu, con uno studio dovuto a Brahmagupta risalente al 628 d.C., anche se il padre dello zero è considerato universalmente il matematico arabo Muhammad ibn Musa al Khwarizmi (800 d.C.) che lo introdusse tra i numeri oggi noti come “arabi”.
Per quel che riguarda l'origine dello zero, usato in senso posizionale, devo però far notare che questa è stata recentemente messa in discussione.


Il tablet Gwalior dimostra che dal 876 d.C. un sistema posizionale con base 10 era diventata parte della cultura popolare in almeno una regione dell'India. 
Ciò che sorprende di questi numeri è che sono così simili a quelli che utilizza la civiltà moderna.

Finora si era creduto che la prima testimonianza dello zero posizionale, datata 876 d.C., fosse custodita in India, nel tempio indù Chatur-bhuja (dio a quattro braccia) della città di Gwalior, a sud di Delhi. 
Pare invece che il primo zero si sia palesato in Cambogia, precisamente del 683. 
A scoprire l’iscrizione K-127, citata da alcuni testi a cavallo tra Ottocento e Novecento ma poi scomparsa nel nulla, è stato il matematico e divulgatore scientifico americano di origine ebraica Amir Aczel, che si è messo sulle tracce di testimonianze sommerse per arrivare nella città di Angkor, l’antica capitale del regno Khmer, nel laboratorio di restauro dove l’Università di Palermo guida un progetto internazionale chiamato Trinacria  (Tr-aining In-ternational A-ction for C-onservation and R-estoration I-conographic A-ssets) che ha consentito di salvare oltre cento opere. 
E tra queste l’iscrizione con il numero d’inventario K-127, originariamente collocata sulla porta del tempio pre-angkoriano di Sambor, vicino al fiume Mekong. Un’iscrizione rituale di 21 righe in lingua Kmher antica che alla quarta riga riporta il numero 605. 



L’iscrizione K-127, originariamente collocata sulla porta del tempio di Sambor, vicino al fiume Mekong

Qualunque sia l'origine, l’uso dello zero rese subito i calcoli più rapidi e precisi, permettendo l’introduzione di regole di calcolo (i cosiddetti algoritmi) che consentivano di eseguire sulla carta operazioni prima possibili solo con l’ausilio dell’abaco. 
Il termine “zero”², che deriva dall’arabo sifr (“nulla”), fu usato per la prima volta in Occidente dal matematico italiano Leonardo Fibonacci nel 1202 e divulgato grazie al suo Liber Abaci, anche se la sua presenza in opere europee dei secoli XIII e XIV fu molto ostacolata e causa di furibonde lotte. 
Una piena accettazione dello zero come vero e proprio numero è tarda e si può forse far risalire al secolo XVI.

Tornando allo "zero" di Mafalda, dal punto di vista didattico non si deve perdere questa cognizione "naturale" dello zero del bambino, questa sua visione di numero “speciale”, ma saperla incanalare in una metodologia di insegnamento che non risulti epistemologicamente di ostacolo alla corretta e logica assimilazione concettuale.
Proprio come dimostrano i più recenti studi psicopedagogici dedicati all'apprendimento (vedi Daniela Lucangeli video), al contrario di quel che dicono gli "apocalittici", prima si comincia e meglio è, ma senza costruzioni formali ed innaturali.
Per una corretta didattica occorre lasciare esprimere in modo spontaneo, informale, ingenuo ogni concetto matematico che il bambino ha già fin da piccolo, senza bloccarlo, anzi, sfruttando proprio le sue competenze ingenue, informali e procedere così, con molta oculatezza didattica, facendo in modo che immagini mentali successive di zero si organizzino fino a diventare modelli stabili corretti al momento opportuno, quando il concetto di zero si sia ben organizzato nella mente e coincida con il risultato cognitivamente atteso.
Proprio come diceva con semplicità e naturalezza Mafalda, ("No, non capisci…Zero vuol dire niente, ma vuol dire tanto") lo zero è il “vuoto” in quanto esistente prima dell’origine ma è anche il “pieno” in quanto capace di portare l’origine stessa al suo completamento nel numero 10. La sua natura è l’essenza del concetto di nulla che comprende in sé l’essenza del concetto di pieno. 
Lo zero è quindi un paradosso: non è vuoto e non è pieno, bensì è l’insieme di tutte e due le cose e niente di entrambe.



Padiglione Zero è chiamata la struttura collocata all’entrata di EXPO 2015.
Zero come origine, inizio. Infatti si tratta di un vero e proprio percorso che attraversa la storia partendo dagli albori, un viaggio alla scoperta dell’uomo.
“Divinus halitus terrae” ossia “Il respiro divino della terra”, questa è la frase posta all’entrata del padiglione progettata dall’architetto Michele De Lucchi e realizzata dall’artista visivo Giancarlo Basili.


Citazioni

Scrive Lao Tse, nel Tao Te King, uno dei grandi libri dell’Antica Cina:
"...lo guardi e non lo vedi lo ascolti e non lo senti ma se lo adoperi è inesauribile....."
Questa è la descrizione del Tao, dell’Assoluto, ma sono parole che ben si adattano alla presentazione dello Zero, del Niente, un numero speciale, che richiede un’attenzione particolare, perché ci porta oltre la Matematica, verso concetti quali il Nulla e l’Infinito.

Un grande poeta indiano, Bihari Lal, alludendo a una donna molto bella, fece un paragone fra il punto e lo zero: 
"Il punto sulla sua fronte accresce la sua bellezza di dieci volte, proprio come un punto zero accresce un numero di dieci volte" 
Era l’inizio della matematica moderna.

Secondo il matematico russo Tobias Dantzig, autore de "Il numero, il linguaggio della scienza":
"....nella storia della cultura, la scoperta dello zero si ergerà sempre come una delle più grandi conquiste individuali del genere umano" 
Un libro che, scriveva Einstein, "è il più interessante sull’evoluzione della matematica che mi sia mai capitato tra le mani".

Un grande storico della matematica moderna, Karl Menninger scrive:
"…che tipo di folle simbolo è questo [lo zero] che significa proprio il nulla? Se è nulla, allora dovrebbe essere nulla e basta. Ma qualche volta è nulla e qualche altra volta è qualcosa… così ora zero diventa qualcosa, qualcosa di incomprensibile ma potente, se pochi “nulla” possono mutare un piccolo numero in uno grandissimo. Chi può capire questo?"

Ian Stewart, scienziato e matematico, invece scrive:
"… Nulla è più interessante del nulla, nulla è più intrigante del nulla e nulla è più importante del nulla. Lo zero è uno degli argomenti preferiti dai matematici, un autentico vaso di Pandora, per curiosità e paradossi…"




Note

¹ Il che significa che zero non è considerato al primo posto nella successione dei numeri naturali, ma è la decima cifra, quella che viene per ultima, dopo il 9.
² Fibonacci tradusse sifr in zephirus. Da questo si ebbe zevero e quindi zero. Anche il termine "cifra" discende da questa stessa parola sifr.





venerdì 16 ottobre 2015

Amore e fisica quantistica?

«Lei disse: “Dimmi qualcosa di bello!”. Lui rispose: “(∂ + m) ψ = 0”. 
La risposta è l’equazione di Dirac, dove m è la massa del sistema considerato, ∂ è una variabile di Feynman e Ψ è la funzione d’onda che descrive lo stato fisico del sistema. L’equazione più bella della fisica. Grazie ad essa si descrive il fenomeno dell’entanglement quantistico. Il principio afferma che: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma, in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce



E' un post che gira da tanto tempo e appena mi capita di vederlo condiviso da amici rispondo che purtroppo non è proprio così e che l'amore eterno non esiste nemmeno per gli elettroni!
Devo confessare che la Fisica non mi ha mai appassionato come invece mi ha sempre appassionato e mi appassiona la Matematica, ma la mia curiosità mi aveva spinto a verificare se effettivamente il messaggio che compariva in internet e sui Social Network (soprattutto su Facebook) fosse scientificamente corretto. Purtroppo l'affascinante e romantica risposta non era poi così romantica!

Cerchiamo di capire intanto di cosa si tratta effettivamente e poi perché sia scientificamente scorretta.
Nel post si parla inizialmente di Dirac......ma chi era costui?
Di Paul Adrien Maurice Dirac  si possono facilmente trovare notizie attendibili sul web che lo descrivono come un fisico e matematico britannico, premio Nobel per la fisica nel 1933, ma soprattutto considerato tra i fondatori della fisica quantistica.
Non mi soffermerò certo a parlare di fisica quantistica, che in parole povere,  si occupa di spiegare i fenomeni microscopici (quelli che avvengono su scale vicine e/o inferiori a quelle atomiche) o ad analizzare nei dettagli l'equazione citata, mi limiterò a sottolineare che tra l'equazione di Dirac e l'entanglement quantistico non esiste alcun nesso! (come potranno verificare i più curiosi dall' articolo pubblicato sulla rivista online dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Asimmetrie, di cui lascio il link


Dirac alla lavagna, nei primi anni ’30 dello scorso secolo

Mi sento di sottolineare solo il fatto che l'introduzione della teoria quantistica ha portato ad una serie di scoperte grandiose e rivoluzionarie, che hanno fatto mettere in discussione le certezze della fisica classica. 
Tra le tante, la previsione di questo fenomeno dell’entanglement, riprodotto per la prima volta intorno al 1972.
Secondo la meccanica quantistica è quindi possibile realizzare un insieme costituito da due particelle che abbiano la capacità di influenzarsi l’un l’altra qualsiasi sia la distanza che intercorre tra di esse, istantaneamente. Ad ogni cambiamento di una particella, nell’altra osserveremo un comportamento uguale e opposto anche se la teoria postula comunque l’impossibilità di predire con certezza il risultato di tale cambiamento.
Il termine "entanglement" (letteralmente, in inglese, groviglio, intreccio) fu introdotto da Erwin Schrödinger in una recensione del famoso articolo sul "paradosso EPR", che nel 1935 rivelò a livello teorico il fenomeno.
L'entanglement è infatti una delle proprietà della meccanica quantistica che portarono Einstein e altri a metterne in discussione i princìpi. 
Nel 1935 lo stesso Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen, formularono il celebre "paradosso EPR" (dalle iniziali dei tre scienziati), che metteva in evidenza, appunto come paradossale, il fenomeno dell'entanglement.
Comunque l'entanglement è un termine usato per descrivere “la reciproca dipendenza di due o più sistemi fisici spazialmente  separati”.
Questo è più o meno in sintesi quello che dice la teoria ma per darne una spiegazione più chiara e comprensibile ci vuole un fisico.
Ed eccolo trovato!
Un amico fisico ha provato a spiegare a me l'arcano con questo esempio.

"Dunque, cerca di immaginare due elettroni che vengono preparati nello stesso sistema, come potrebbe essere l’orbitale di un atomo, e caratterizzati da un valore quantitativo, detto “spin”.
Questo spin può valere A o B, ma quando vengono preparati nello stesso sistema non possono avere lo stesso valore di spin, per cui se uno è A l’altro è B e viceversa. 
Ammettiamo ora di avere questi due elettroni nello stesso sistema e di voler misurare il valore di spin di uno dei due. Se la misura fosse il valore A, ciò significherebbe automaticamente che il valore dell'altro sarebbe B. 
Prima di fare ciò prendiamo a caso uno dei due elettroni e lo spediamo ad un amico, magari in Australia e quindi che abita dall’altra parte del mondo. Misuriamo allora il valore di spin di quello che è rimasto ed esce ad esempio che è A, poi chiamiamo l’amico e gli chiediamo di misurare quello dell’elettrone che gli è arrivato. Effettivamente risulta essere B. 
Quindi se uno è A l’altro è B e viceversa pur non influenzandosi direttamente essendo a migliaia di chilometri. 
Allora è vero, esiste effettivamente una reciproca dipendenza come asseriva il principio dell'entanglement? 
Lasciamo passare un po' di tempo e ripetiamo l'esperimento con l'amico australiano ma con nostra somma sorpresa stavolta gli elettroni fanno come gli pare: se uno è A, l’altro è A, oppure B, a caso. I due elettroni hanno smesso di essere entangled......altro che vero amore!!!!!"



Per dirlo con le dotte parole del mio amico fisico l'entanglement è stabile nel tempo di per sé, ciò che lo distrugge è sia la misurazione che l'interazione con l'ambiente.
Per cui, nella pratica basta aspettare, poiché il sistema non è perfettamente isolato.
Ma non è solo il passare del tempo in sé che disaccoppia gli stati.
Già la misurazione proietta subito entrambe le particelle in un autostato di spin e se non l'avessimo misurato sarebbe stata l'interazione con l'ambiente a perturbarli, avendo alla fin fine un effetto simile a quello della misura.

Questa è stata la spiegazione del mio amico fisico e queste le mie riflessioni sul fatto che troppo spesso sui Social Networks e soprattutto su Facebook si condividano false notizie, per fare effetto o per accaparrarsi i "mi piace" (non si capisce bene a che pro?), magari appunto usando a sproposito dotte citazioni o teorie scientifiche.
Proprio perché le potenzialità divulgative dei Social Networks sono enormi, in tempo reale e a costo zero, sarebbe sicuramente più utile ed efficace che fossero proprio gli studiosi o gli scienziati i primi a diffondere la loro cultura, creando così curiosità ed interesse senza pericolo di "bufale".
E per quel che riguarda questo post cosa possiamo dedurne? 
Forse che Facebook è un ottimo diffusore di bufale o che la fisica quantistica è affascinante o che l’amore eterno non esiste? 
A seconda delle sensibilità cambierà la risposta e sicuramente molti saranno rimasti delusi e mi incolperanno di non essere romantica o forse addirittura di essere cinica. 
A queste persone rispondo che non c'è bisogno di ricorrere alla scienza per dichiarare il proprio amore.....forse basta solo un gesto, un sorriso, un "ti amo" e la scienza e l'amore ringrazieranno!



giovedì 8 ottobre 2015

Dov'è finita la relazione nel tango?!

di Maria Calzolari
Il tango è ballo di relazione per eccellenza, anzi forse potremmo dire che il Tango è il ballo di relazione. Su questo credo converremo tutti: la connessione alta tra i ballerini all’altezza del cuore, il dialogo corporeo che si trasforma in un dare e ricevere continuo. Non a caso si parla della coppia nel tango come di un animale a quattro zampe, quasi fosse possibile (e non solo in termini posturali, di corpo) realizzare una fusione di anime mentre si balla. Molti libri parlano del tango in questi termini e forse è questa la chiave di volta che rende questo ballo diverso dagli altri, più profondo, più rivelatorio, più intenso.
 yin e yang
Qualche sera fa mi trovavo in una deliziosa milonga di Bologna e osservavo le coppie ballare in pista, con l’occhio che mi proviene dalla mia formazione di sociologa, prima ancora che di insegnante di tango. Mi piace osservare i fenomeni da un punto di vista anche sociale. E notavo che nessuno, o quasi, ballava il tango stando davvero in relazione. Presuntuoso da parte mia affermare questo? Non credo, perché io per prima conosco la differenza (che ho sentito dentro di me) tra il ballare in relazione e il ballare come prestazione. Non c’è nulla di sbagliato nel ballare per sentirci bravi, o all’altezza delle aspettative proprie e del “pubblico tanguero”, tutti desideriamo il riconoscimento da noi stessi e dagli altri, ma che cosa ci stiamo perdendo mentre balliamo con questi presupposti? Perdiamo l’essenza del tango. Basta osservare gli sguardi di chi sta ballando, l’intenzione dei loro corpi, per comprendere cosa stia accadendo dentro quella coppia. Un occhio attento e sensibile coglie chi balla restando in relazione e chi lo fa uscendone. Non mi stupisce tutto questo, perché ho sempre ritenuto che la milonga sia uno specchio micro di ciò che accade nella società macro. E siamo in un periodo storico nel quale la relazione si è completamente persa, soppiantata dall’illusione di stare in relazione, che ci proviene soprattutto dall’utilizzo esasperato dei social network e dei media.
Dov’è finita la relazione?! Nel tango, come nella vita?! 
Azzardo un’ipotesi. Stiamo perdendo la distinzione dei ruoli maschile e femminile, c’è una grande confusione su questo punto. Siamo in un momento storico in cui le donne si comportano più come uomini, hanno sviluppato quello che in psicologia si chiama maschile interiore, in maniera molto accentuata e in ragione di questo si affermano in maniera molto forte, cadono spesso nel bisogno di avere il controllo di tutto e finiscono per “comandare”. Mentre gli uomini si stanno spostando più sul loro femminile interiore, sono molto più protettivi di anche solo 50 anni fa e più sensibili. Non trovo che tutto questo sia sbagliato, anzi, c’è qualcosa di davvero importante in queste conquiste e da salvaguardare, ma senza esasperarlo. Questa confusione di ruoli nel tango si vede chiaramente. Quando si entra nei due ruoli del tango spesso la donna fatica a lasciarsi andare e continua a cercare di detenere il ruolo di guida che le è così familiare nella vita di tutti i giorni e l’uomo fatica a prendere in mano la situazione e a guidare con decisione. Sono anni che noto questa dinamica tra i miei allievi e anche nelle milonghe. E la relazione salta, perché il tango ci chiede che i ruoli vengano rispettati! Non credo sia un caso che il Tango sia così popolare oggi. E’ un modo per riappropriarsi del proprio ruolo anche a livello sociale. Il tango funziona quando la donna è nel suo femminile e l’uomo nel suo maschile ed è comune l’intenzione di dialogare costantemente. Ciò non significa poi, né per l’uno, ne per l’altro, perdere le proprie conquiste sociali, ma semplicemente permettersi di ritrovare il proprio ruolo di partenza. Ed è fantastico, a mio parere, questa riconquista! Per la donna riconquistare il proprio femminile non c’entra nulla con tacchi alti e mise deliziose. Stare nel proprio femminile è mollare la presa, abbandonarsi fiduciose, affidarsi e lasciar fare all’uomo, senza velleità di controllo. Perché se balliamo con un tacco 9, ma siamo sempre all’erta su tutto quello che l’uomo ci sta proponendo, di femminile ci rimane solo il tacco purtroppo!
 L'abbraccio

L’altra sera tutto questo mi è stato confermato da un commento di apprezzamento che mi è venuto proprio dopo essermi immersa nel tango con il mio compagno di ballo, godendoci un dialogo tra corpi dove i ruoli erano rispettati e c’era la volontà di ascoltare ogni più piccola piega di noi: il respiro, i micromovimenti sincronizzati del corpo, la lentezza dei movimenti stessi, il contatto. Tutto questo dovrebbe appartenere al tango teoricamente sempre, ma spesso lo si perde. Ballare stando in relazione richiede intenzione e molto lavoro interiore e su di sé, per imparare a restare davvero aperti all’altro e a rispettare i ruoli. Mi fa piacere che la relazione arrivi agli occhi di chi osserva, perché questo mi conferma la parte di responsabilità che hanno gli insegnanti nel trasmettere l’importanza dello stare in relazione nel tango. Qualcuno potrebbe ritenere che la relazione si possa spiegare, il come stare in relazione si possa affermare a parole. Questo è assai difficile. Noi impariamo quello che respiriamo e vediamo, più di quello che ci viene detto. A livello psicologico questo è chiarissimo. Avete mai notato i bambini rispetto ai genitori? Imitano. Non sono importanti le parole che vengono loro dette, ma quello che vedono, sentono, respirano. Se un genitore dice “a” e fa “b”, il bambino non impara “a”, ma fa sua l’incoerenza del genitore ed emula “b”. I famosi neuroni a specchio! Jean Jaurès diceva “Non si insegna quello che si vuole, dirò addirittura che non si insegna quello che si sa o quello che si crede di sapere: si insegna e si può insegnare solo quello che si è”. Ne convengo. Come insegnanti credo abbiamo la responsabilità di trasmettere l’essenza del tango e quindi di partire da un lavoro su noi stessi, per essere noi per primi in relazione quanto più possibile mentre balliamo e per valorizzare la dimensione relazionale di questo ballo. Poi sarà scelta dell’allievo accogliere tutto questo e farlo proprio, oppure non riconoscerlo come buono per sé. Perché insegnare passi e struttura in un certo senso ci compromette meno, trasmettere il senso relazionale del tango è impresa più ardua, ma almeno dal mio punto di vista più affascinante.

L'articolo è uscito sulla rivista online Tango y Gotan il giorno 7 ottobre 2015 
Maria Calzolari è Presidente dell’Asd OliTango, la prima associazione di Bologna che unisce il Tango alle discipline olistiche www.olitango.it. E' insegnante di Tango Argentino, diplomata MIDAS, e Operatrice di TangoOlistico®. Di formazione sociologa, balla tango dal 2007 e scrive per passione. Nel 2013 è uscito il suo romanzo “Amore... a passo di Tango” (Ed. Pendragon) che riflette il suo modo di intendere e vivere il tango. Tiene un blog sul suo sito www.mariacalzolari.it 

venerdì 2 ottobre 2015

Bugie matematiche o asimmetria informativa?

"Le scienze non tentano di spiegare, nemmeno tentano di interpretare; le scienze creano soprattutto dei modelli. Per modello si intende una costruzione matematica che, con l'aggiunta di determinate interpretazioni verbali, descrive i fenomeni osservati. La giustificazione di una tale costruzione matematica sta esclusivamente e precisamente nel fatto che ci si aspetta che funzioni." 
John von Neumann (1903-1957)


La nascita della moderna Teoria dei Giochi può essere fatta coincidere proprio con l'uscita del libro "Theory of Games and Economic Behavior" di John von Neumann e Oskar Morgenstern

John von Neumann è stato sicuramente una delle menti più brillanti e straordinarie del secolo scorso ed era ungherese. 
Faceva infatti parte  del famoso "clan degli ungheresi" ai tempi di Los Alamos e del Progetto Manhattan (la bomba atomica) che, insieme al suo amico e connazionale Leo Szilard, a Edward Teller ed Eugene Wigner, era considerato il clan degli "alieni".
Si racconta che Enrico Fermi, una delle figure più importanti all'interno dello stesso grande progetto, quando manifestò un certo scetticismo sull'esistenza di una civiltà aliena superiore che non fornisse nessun segno della proprio esistenza, Szilard gli rispose "probabilmente sono già qua, e li stai chiamando ungheresi". 
Tra cotanti scienziati, ungheresi o no, John von Neumann era considerato davvero un semidio dei numeri, un alieno di un altro pianeta, dotato di una mente straordinaria che gli ha permesso di apportare contributi significativi, e talora assolutamente nuovi, praticamene in ogni campo della ricerca, dalla matematica alla meccanica statistica, dalla meccanica quantistica alla cibernetica, dall'economia all'evoluzione biologica, dalla teoria dei giochi all'intelligenza artificiale......e, purtroppo, anche alla bomba atomica.
Gli anni della guerra infatti vedono profondamente coinvolto von Neumann nel progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica. 
Un coinvolgimento alimentato soprattutto da un profondo odio verso i nazisti, i giapponesi e successivamente verso i sovietici. 
Già nel 1937, dopo aver ottenuto la cittadinanza statunitense, gli viene proposto di collaborare con le forze armate e da quel momento la sua escalation ai vertici delle istituzioni politico-militari sarà inarrestabile. 
È lui a suggerire come deve essere lanciata la bomba atomica per creare il maggior numero di danni e di morti, è lui che interviene nella costruzione della bomba al plutonio realizzando la cosiddetta "lente al plutonio", ed è ancora lui a incentivare la costruzione di ordigni nucleari sempre più potenti. 
Ma è lui forse anche il capostipite della cosiddetta guerra preventiva. Propose infatti alle autorità militari di bombardare preventivamente l'Unione Sovietica per scongiurare il pericolo rosso ed è la sua teoria dei giochi che venne ampiamente utilizzata in questo contesto, per studiare e ipotizzare tutti i possibili scenari bellici che si potevano sviluppare in seguito a certe decisioni. 
Il fervore con cui appoggiò lo sviluppo degli ordigni atomici lo spinse a seguire di persona alcuni test sulle armi nucleari nella seconda metà degli anni quaranta, che raggiungeranno l'apice con l'esplosione della bomba H nelle Isole Marshall nel 1952. 
Probabilmente saranno proprio le radiazioni sprigionate da questi test a condannarlo a morte, da lì a poco.


Il fervore con cui Neumann appoggiò lo sviluppo degli ordigni atomici lo spinse a seguire di persona alcuni test sulle armi nucleari nella seconda metà degli anni quaranta, che raggiungeranno l'apice con l'esplosione della bomba H nelle Isole Marshall nel 1952

Ritornando ai suoi contributi in campo matematico, è chiaro che la nascita della moderna Teoria dei Giochi può essere fatta coincidere proprio con l'uscita del libro, nel 1944, "Theory of Games and Economic Behavior" di John von Neumann e Oskar Morgenstern, teoria che verrà poi approfondita e formalizzata da altri matematici, tra cui il suo allievo, a Princeton, John Forbes Nash jr.sicuramente il più famoso studioso ad essersi occupato successivamente della Teoria dei Giochi, in particolare per quel che concerne i "giochi non cooperativi".
Nash, affascinato dalla possibilità di applicare la Teoria dei Giochi all'economia, ai rapporti politici tra stati, alle strategie militari, affrontò il problema in modo originale e rivoluzionario rispetto a Von Neumann. 
Estese la trattazione ai giochi a più partecipanti e scoprì una soluzione di equilibrio in cui ogni agente trova la miglior strategia rispetto alla migliore strategia di tutti gli altri (le "strategie dominanti"). 
L'equilibrio di Nash, insieme al teorema del minimax di Von Neumann, è stata uno dei cardini della teoria dei giochi ed è stata applica costantemente ai campi più disparati: dall'economia alla biologia.  
Teoria che recentemente è stata però messa in discussione dagli studi di Ekeland che smontano le idee del Nobel Nash, affermando che “teoria dei giochi ed equilibrio razionale sono superati”.


Entrato nell’imaginario collettivo tramite l’interpretazione di Russel Crowe nel  film “A Beautiful Mind” il celebre matematico John Forbes Nash, Jr. è da poco tragicamente scomparso in un incidente stradale, subito dopo essere stato insignito, insieme a Louis Nirenberg, del prestigioso Abel Prize  

Intervenendo al convegno, organizzato dal 14 al 18 settembre scorsi all’Università dell’Insubria, incentrato sui fenomeni non lineari in Matematica e in Economia, che, tra i relatori, avrebbe dovuto ospitare proprio Nash, ha affermato:

"I modelli di Nash sulla teoria dei giochi e sull’equilibrio razionale sono le basi della moderna teoria economica. Ma Nash era figlio dei suoi tempi e il suo pensiero mirava all’ottimizzazione: alla ricerca dell’equilibrio tra variabili e forze, fino ad arrivare al miglior risultato con un uso minimo delle risorse. Era il momento in cui si iniziarono a costruire computer sempre più veloci".

Ma è innegabile che alla razionalità di Nash e dei suoi tempi è seguita l’irrazionalità dei nostri. Ed è proprio in campo economico e dei mercati che si riflette questa irrazionalità.

"Oggi - dice ancora Ekeland - tutte le teorie economiche riguardano gli individui, non la società nel complesso. Tutto si basa su contratti tra individui e al centro c’è un principio fondamentale e poco noto: l’asimmetria informativaSono contratti e relazioni dove una parte sa più cose dell’altra, ben descritte da tanti modelli matematici". 

Ed ecco quelle che potremmo definire le "bugie" della Matematica e dei suoi Modelli incapaci di descrive il vicolo cieco in cui siamo finiti, tra Stati che rischiano di fallire, mercati impazziti o incomprensibili. 

"Ma non è vero - sottolinea ancora Ekeland - che nessuno li capisce. C’è chi guadagna un mare di soldi facendo “high frequency trading”, con transazioni velocissime e senza veri rischi. Non solo. È un particolare tipo di asimmetria informativa, vale a dire l’azzardo morale, a governare gli stipendi d’oro dei manager. Perché il contratto con cui un’azienda assume un manager si basa proprio su uno squilibrio: l’azienda non sa se il manager lavorerà bene e raggiungerà gli obiettivi. Per stimolarlo deve pagarlo sempre di più di anno in anno, e per lavorare sempre meno. Finché non c’è altra scelta se non mandarlo in pensione a cifre altissime. E cercare un sostituto ancora più caro."


Il professor Ivar Ekeland, docente della Université Paris-Dauphine 

L'apertura dei lavori della RISM School, Riemann International School of Mathematics, nel Campus di Bizzozero era stata infatti affidata al professor Ivar Ekeland, docente della Université Paris-Dauphine. 
Nella sua appassionata Lectio Magistralis dedicata all’opera geniale di Nash, aveva anche ripercorso l’opera del grande matematico, contenuta in pochi lavori ma di grande impatto in aree molto diverse della Matematica, con ricadute straordinarie nel modo di pensare, a livello non solo economico ma anche sociale. 
Con la sua Lectio Magistralis aveva catturato la platea passando disinvoltamente dalla Matematica a citazioni letterarie, ricordando l’attribuzione del premio Nobel per l’Economia a Nash nel 1994, sottolineando quanto importanti siano state le ricadute dei suoi studi proprio sull’Economia, e concludendo il suo discorso con una poesia del simbolista francese Stéphane Mallarmé, intesa a valorizzare lo spirito di Nash senza dimenticarne la malattia.


Édouard Manet, Portrait of Stéphane Mallarmé, 1876

Ivar Ekeland ha scelto “La tomba di Edgar Poe” per concludere un tema complicato come quello del genio matematico. 
Nash lo era un genio, nonostante una schizofrenia che per lungo tempo lo costrinse a un isolamento forzato. Per quasi trent’anni quello che la rivista Fortune definì "il più brillante nell’ultima generazione di matematici", vagò quasi ignorato da tutti nel dipartimento di matematica di Princeton e solo grazie al film di Ron Howard “A beautiful mind” il suo eccezionale contributo alla matematica divenne noto al grande pubblico.
Perché il Professore ha concluso la sua lectio magistralis citando proprio i versi di Mallarmé dedicati ad Edgar Allan Poe? 
Perché questa associazone? 
Che cosa accomuna il matematico Nash e lo scrittore americano Edgar Allan Poe?
La sua risposta è stata questa:

"La luce e le tenebre della loro vita. 
Nash rappresenta un nuovo carattere romantico nella matematica, non è morto giovane come Galois o Abel, ma la sua schizofrenia non gli ha permesso di vivere per quasi 50 anni. Eppure la sua opera è lì, destinata a rimanere nel tempo, come del resto in letteratura è rimasta quella di Poe, nonostante si sottolinei che la sua vita sia stata condizionata dalla droga. 
Poco importa, grandezza e tragedia sono le due facce della loro esistenza".



La tomba di Edgar Poe


Quale in Sé stesso alfine l'eternità lo cambia 
Il Poeta risveglia con una spada nuda 
Il suo secolo spaventato di non essersi accorto 
Che la morte trionfava in quella voce strana

Essi come un vile sussulto d'idra udendo in passato l'angelo 
Dare un senso piú puro alle parole della tribú 
Proclamarono a gran voce il sortilegio bevuto 
Nell'onda senza onore di qualche nera mescolanza

Della terra e della nube ostili oh danno 
Se con quello la nostra idea non scolpisce un bassorilievo
Del quale abbagliante la tomba di Poe si orni

Calmo blocco quaggiú caduto da un disastro oscuro 
Che questo granito almeno mostri per sempre il suo limite 
Ai neri voli della Bestemmia sparsi nel futuro