giovedì 26 novembre 2015

Numeri immaginari...Matematica reale o immaginaria?

Eccomi alla seconda puntata (la prima la trovate qui) del viaggio tra matematica reale e immaginaria vista anche attraverso i fumetti.
Avevo detto che avrei parlato dei numeri immaginari!!??
Non posso fare a meno però di ritornare ai fumetti, anzi alla strisca di "Calvin & Hobbes" dove Calvin si terrorizza al solo sentirne il nome, mentre per Hobbes sono innati. Infatti, come si sa, le tigri di pezza hanno sviluppato la capacità di comprendere e lavorare con i numeri immaginari!!!
Tanto per ricordare chi sono Calvin e Hobbes.....Calvin è un bimbo, Hobbes la tigre di pezza che con lui diventa animata.




Calvin: Ecco un altro problema di matematica che non riesco a risolvere, quanto fa 9+4?
Hobbes: Oh, questo è difficile, devi usare l'analisi matematica e i numeri immaginari per questo
Calvin: Numeri immaginari ?? 
Hobbes: si, sai come undiciette, trentaventi, roba del genere, è un po' "complesso" al primo approccio
Calvin: E tu dove hai imparato tutte queste cose che non sei mai stato a scuola?
Hobbes: Istinto, le tigri ci nascono con l'istinto

Calvin & Hobbes è una striscia a fumetti realizzata da Bill Watterson, uscita sui quotidiani statunitensi dal 18 novembre 1985 al 31 dicembre 1995, data in cui l’autore smise di disegnare. Ambientata negli Stati Uniti contemporanei, la striscia è incentrata sulle avventure di Calvin, un bambino di sei anni pestifero e fantasioso, e di Hobbes, la sua tigre di pezza che per tutti è un semplice pupazzo, ma che per Calvin si anima e diventa un fedele compagno di avventure e peripezie quotidiane.
Il nome Calvin si ispira a Giovanni Calvino, il teologo del XVI secolo che credeva nella predestinazione, mentre Hobbes è quello del filosofo e matematico britannico del XVII secolo, Thomas Hobbes, autore nel 1651 dell'opera di filosofia politica Leviatano, in cui rivela la sua bassa considerazione per la natura umana.

Dopo questa introduzione fumettistica entro nel vivo dell'argomento dei numeri immaginari che in verità non so se considerarli appartenenti al mondo della Matematica reale o di quella immaginaria!
Comunque Hobbes ha dimostrato di conoscerli davvero e aggiungendo "it's a little confusing" ha  implicitamente ammesso che c'è un po' di confusione, insomma che la questione è complessa.
Si perché immaginario e complesso, come ben sanno i matematici, sono due concetti che vanno davvero a braccetto. E accompagnata dai due simpatici fumetti cercherò di introdurli, soprattutto storicamente. 



Fu Girolamo Cardano (Ars Magna, 1545), poliedrica figura del Rinascimento italiano, riconosciuto anche come il fondatore principale della teoria della probabilità, il primo a trattare esplicitamente questi numeri (senza ancora usare il simbolo i), tentando di risolvere il seguente problema:

“dividere un segmento di lunghezza 10 in due parti tali che il rettangolo da esse formato abbia area 40”

In realtà l’area di un tale rettangolo è al massimo 25 (quando x=y cioè quando le due parti sono uguali e diventa un quadrato), ma l’algebra ci dice qualcosa in più, se consideriamo l’equazione corrispondente al problema:

x² −10x + 40 = 0 .
Essa conduce alle due soluzioni “sofistiche” 5 + √−15 e 5 − √−15 , che usano il numero “impossibile” √−15 e il cui prodotto è:
(5 + √−15)(5 − √−15) = 25 − (−15) = 40
e la cui somma è:
(5 + √−15)+ (5 − √−15) =10 

Nei secoli successivi, numerose altre equazioni algebriche portarono a soluzioni  “immaginarie”, come le definì Cartesio nel 1637. Ma fu grazie ad Eulero che lo studio di tale materia trovò pieno compimento con l'introduzione dell’unità immaginaria i, tale che i² = −1, che permise di scrivere i numeri precedenti come 5 ± i√15 e qualsiasi altro numero complesso nella forma a noi nota: z = a + i b
L’interpretazione geometrica fu dovuta alle tesi di Gauss (1799) e Argand (1806) e alla introduzione del piano complesso, che oggi porta il loro nome.



Ma andiamo per ordine e consideriamo il fatto che mentre i numeri naturali e le frazioni sono nati da esigenze di carattere pratico, di tipo amministrativo e commerciale, i numeri negativi, reali, immaginari e complessi sono, invece, frutto di speculazioni interne allo sviluppo della matematica, in particolare di quella parte che è denominata algebra e che fino alla metà dell’Ottocento si identificava con la teoria delle equazioni algebriche. 
E proprio la risoluzione e lo studio delle proprietà delle equazioni polinomiali porterà inevitabilmente allo studio della natura e delle proprietà dei vari insiemi numerici.
Per circa sei secoli dalla sua fondazione, comunque l’algebra non ebbe una significativa evoluzione e il primo avanzamento notevole, si ebbe infatti solo nella prima metà del Cinquecento con la risoluzione delle equazioni di terzo e quarto grado ad opera di Scipione dal Ferro, Niccolò Tartaglia, Girolamo Cardano e Lodovico Ferrari. Ed è proprio in questo contesto che si iniziano a considerare anche soluzioni negative ed emerge per la prima volta una problematica che porterà all'introduzione dei numeri immaginari e complessi.
Pochi anni dopo il problema "impossibile" di Cardano, Raffaele Bombelli, nella sua "Algebra, parte maggiore dell'Artmetica" pubblicata a Bologna nel 1572, introduce regole di calcolo per operare con le radici di numeri negativi e accetta queste nuove quantità numeriche anche come soluzioni per le equazioni di secondo grado con discriminante negativo.
Questo tipo di soluzioni vengono denominate da Bombelli “sofistiche” (forse riprendendo il nome già precedentemente usato da Cardano), ma la loro compiuta accettazione non avvenne né facilmente né in tempi brevi.



La resistenza a considerare soluzioni negative o complesse di equazioni algebriche derivava, in gran parte, dal fatto che l’algebra era considerata uno strumento per risolvere problemi “concreti” e le soluzioni di quel genere non avevano alcun significato reale.
Autori come Albert Girard e René Descartes, furono tra i primi ad accettare questo nuovo tipo di soluzioni, ma lo fecero solo per motivi squisitamente matematici.
Albert Girard (1595-1632), nel suo trattato "L’invention en algebre" (1629), usa disinvoltamente coefficienti negativi e calcola non solo le soluzioni negative, ma anche quelle complesse.
Ricordando anche che fu il primo ad utilizzare le abbreviazioni sin, cos e tan in un trattato, notiamo che la parte più interessante di questa pubblicazione è quella dove Girard fornisce uno dei primi enunciati di quello che sarà poi denominato Teorema fondamentale dell’algebra (TFA):

Toutes les equations reçoiventautant de solutions, que la denomination de la plus haute quantité le demonstre, excepté les incompletes. 
Tutte le equazioni, tranne quelle incomplete, hanno tante soluzioni quante ne indica la denominazione della quantità più alta (cioé il grado)

Anche René Descartes (Cartesio 1596-1650), filosofo e matematico francese ritenuto fondatore della matematica e della filosofia moderna, nel terzo capitolo della sua "Géometrie" del 1637 tutto dedicato allo studio delle equazioni algebriche, fornisce un enunciato simile a quello di Girard:

Sachez donc qu’en chaque équation, autant que la quantité inconnue a de dimensions, autant peut-il y avoir de diverses racines, c’est-à-dire de valeurs de cette quantité
Sappiate che ogni equazione può avere tante radici, vale a dire valori di questa quantità, quante sono le dimensioni (il grado) della quantità incognita

Egli conclude la sua trattazione dell'algebra con l’affermazione:

Le radici non sono sempre reali, talvolta esse sono immaginarie, cioè mentre noi possiamo sempre concepire tante radici per ogni equazione come ho già detto, tuttavia qualche volta non c’è alcuna quantità che corrisponde a quello che si immagina. Così sebbene si possa immaginare che l’equazione x3-6x2+13x-10=0 abbia tre radici, tuttavia ve ne è solo una reale, mentre le altre due sono immaginarie.

Quest’ultima affermazione sembra indicare che Descartes ammetta che un’equazione di grado n abbia esattamente n radici purché si considerino anche quelle complesse, che lui chiama immaginarie, anche perché se l’equazione ha tutte radici di questo tipo non può essere costruita geometricamente e quindi può essere solo immaginata.
Girard e Descartes anche se in modo un po’ confuso propongono quelle che sono considerate le prime enunciazioni del TFA. Essi non solo non forniscono alcuna giustificazione del loro enunciato, ma si limitano a verificarlo su esempi che riguardano equazioni fino al quarto grado, le uniche per cui all’epoca si conoscevano formule risolutive.
Proseguendo la nostra storia arriviamo a Isaac Newton (1642-1727) che, nella sua "Arithmetica Universalis" del 1707, considera le soluzioni complesse come una indicazione della impossibilità di risolvere un problema, di qui l’appellativo di "impossibili" da lui usato per questo tipo di numeri:

Così l’equazione deve esprimere tutti i casi del problema così bene sia quelli che sono impossibili sia quelli che sono possibili, secondo che le sue radici possono essere possibili o impossibili.

Giungiamo quindi al Settecento, il secolo dell’analisi infinitesimale, ma in cui tuttavia quasi tutti i più importanti matematici si occupano anche della risoluzione delle equazioni polinomiali, cercando metodi per risolvere equazioni di ogni grado. 
Gottfried W. Leibeniz (1646-1716) e Giovanni Bernulli (1667-1748) agli inizi del 1700 si occupano di fattorizzazione per la risoluzione di integrali razionali. In particolare Leibniz sulla base di un esempio, mal calcolato, affermò che purtroppo la decomposizione non è sempre possibile.
Il grande matematico svizzero Leonardo Eulero (1707-1783), invece, in una lettera del 1 ottobre 1742 a Nicola Bernoulli afferma, senza dimostrazione, che ogni polinomio a coefficienti reali può essere decomposto in fattori lineari e/o quadratici a coefficienti reali. Bernoulli non giudica corretta l’affermazione e si innesta così una lunga diatriba che sfocerà in una dimostrazione di Eulero in un articolo “Recherches sur les racines imaginaires des equations”, pubblicato, nel 1751, nelle "Mémoires de l’Académie de Berlin".
Il grande matematico svizzero, negli ultimi anni vissuti a San Pietroburgo compose anche un manuale divulgativo di algebra che apparve in edizioni tedesca e russa a San Pietroburgo nel 1770-72 e in edizione francese nel 1774 (sotto gli auspici di d’Alembert, autore forse del primo tentativo serio di dimostrazione del TFA nel 1746).  
In esso, aldilà dei pregi didattici, si riscontrano imprecisioni che possono però essere spiegati dal fatto che l'autore, ormai cieco, non era più in grado di scrivere e lo dettò, sfruttando solo la sua memoria, al segretario, Nicolaus Fuss che era anche il marito di sua nipote.
E proprio il capitolo XIII di questo testo è dedicato a quei numeri che egli chiama “quantità impossibili o immaginarie”. 
Dobbiamo a lui l’uso della lettera i per indicare  √-1 che però fu adottata appunto verso la fine della sua vita in una memoria del 1777, pubblicata sugli Atti della Accademia di San Pietroburgo,.
A Eulero siamo anche debitori di molti dei simboli ancora oggi usati in matematica. Fu lui infatti a introdurre la lettera e per indicare la base dei logaritmi naturali, ad usare sistematicamente π per indicare il valore irrazionale 3,1415926535.......,  Σ come simbolo per la sommatoria e f(x) per indicare una funzione.




Ma tornando alla dimostrazione del TFA, altri tentativi furono portati avanti, oltre a quello di Eulero, dal torinese Giuseppe Lodovico Lagrangia (più noto come Lagrange) nel 1772 e da Pierre Simon Laplace nel 1795, e finalmente nel 1799 Gauss, il principe dei matematici, riuscì nell'intento. 
Johann Carl Friedrich Gauss (1777-1855) provò a dimostrare questo teorema per la prima volta appunto nel 1799, nella sua tesi di dottorato, presentata in quell’anno presso l’Università di Helmstedt in Germania. Successivamente egli trovò altre tre diverse dimostrazioni dello stesso risultato, ma modestamente affermò che era pervenuto alla prima dimostrazione sfruttando i tentativi dei suoi predecessori. 
Infine, nel 1814 Jean-Robert Argand, un libraio appassionato di matematica, pubblicò un'altra dimostrazione molto più semplice rispetto a quella di Gauss.

Ma fra i motivi che hanno a lungo ostacolato la comprensione dei numeri complessi c’è sicuramente la mancanza di una loro rappresentazione geometrica.
Questa fu infine proposta quasi contemporaneamente e indipendentemente, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento da Caspar Wessel (1745-1818), Jean Robert Argand (1768-1822) e da Carl Friedrich Gauss (1777-1855). Ma anche se le tesi di Gauss e Argand apparvero già nel 1799 e nel 1806 rispettivamente, fu solo comunque dopo il 1831, anno in cui fu pubblicato il lavoro di Gauss "Teoria residuarum biquadraticorum. Commentatio seconda", che l’idea del piano geometrico complesso cominciò ad affermarsi. 
Gauss pose in corrispondenza i numeri complessi con i punti di un piano cartesiano fornendo così una interpretazione geometrica all’addizione e alla moltiplicazione di due numeri complessi, facendo così apparire più naturali, da un punto di vista intuitivo, queste operazioni e trasformando un numero complesso in un vettore.
Prende così una forma definitiva e coerente la teoria dei numeri complessi (chiamati con questo nome proprio da Gauss), la loro rappresentazione e la loro visualizzazione sul piano complesso che oggi porta il loro nome, detto appunto piano di Argand-Gauss.




Ma non finisce qui.
Un giorno un matematico irlandese, tale William Rowan Hamilton (1805-1865) non soddisfatto dei soli numeri complessi, decise di inventare i "quaternioni". Non bastandogli la sola i, aggiunse altre due unità immaginarie, j e k e così un quaternione assunse dunque la forma: q = a + ib + jc + kd
Se prima i numeri complessi avevano due parametri, la parte reale e la parte immaginaria, ora i quaternioni ne hanno quindi ben quattro. E se i numeri complessi potevano essere disegnati su di un piano, un ente bidimensionale, per i quaternioni non basta: ci vorrebbe un'entità a quattro dimensioni.
Ma non esiste, su questa terra!!!!!
Questo viaggio potrebbe proseguire ancora perché attraverso i numeri complessi si sono ottenuti i frattali e dai quaternioni i superfrattali con tutte le loro implicazioni e applicazioni probabilistiche alla fisica moderna, all'astronomia, alla meteorologia, alla neurologia, alla finanza o ancora alla  teoria della relatività e nella meccanica quantistica e in settori più applicati, come la computer grafica 3D, l'ottica e la robotica.




Ma questa è un'altra storia di cui potrei parlare in una terza puntata. Calvin e Hobbes sono esausti e non mi accompagnerebbero più!




Fonti:

From the book:
M.SPOGLIANTI "Appunti di Storia delle Matematiche" Litografia Cislaghi, Milano, 1974 
R.COURANT e H.ROBBINS "Che cos’è la matematica?" Boringhieri, Torino, 2010
C.B.BOYER "Storia della matematica" Oscar Mondadori, 2011
From website:
Per i metodi di calcolo e le proprietà dei numeri complessi consiglio questo link:
http://www.ing.unitn.it/~bertolaz/files/complessi.pdf 
From the pictures
Le immagini, rielaborate da me (Annalisa Santi), sono state reperite dal sito Calvin&Hobbes
http://calvinhobbesdaily.tumblr.com/




Fumetti...Matematica reale e immaginaria!

Appena annunciato da Paolo Alessandrini il tema per il prossimo Carnevale della Matematica, il numero 92 sul suo blog Mr. Palomar, mi è immediatamente tornata alla mente un'immagine apparsa recentemente sulle pagine di Facebook nel gruppo "Matematica", pubblicata da Emanuele Spatola, da me poi rielaborata per questo post.
Il tema infatti è "Matematica reale e matematica immaginaria" e in questa immagine, che trovo molto carina e divertente, di "immaginazione matematica" ce ne è davvero tanta!!!!!
E' infatti l'immagine del manga Sailor Moon rielaborata con il viso del matematico inglese Brook Taylor famoso anche per la Serie che porta il suo nome.


Il famoso manga di Sailor Moon rielaborato con il viso del matematico a cui si deve 
l'altrettanto famosa Serie di Taylor

Ritornando al tema, ho pensato di fare prima una raccolta di immagini di cartoons o fumetti che riguardano la matematica reale e immaginaria e poi (ma in una seconda puntata) una riflessione sull'origine e sul perché dei numeri immaginari.

Ecco la carrellata: 

I Simpson sono zeppi di matematica immaginaria e non. 
Sarà perché molti dei loro sceneggiatori hanno una laurea scientifica? 
J. Stewart Burns si è laureato in matematica a Harvard nel 1992 e ha conseguito il master in matematica l’anno successivo, a Berkeley.
David S. Cohen si è laureato in fisica Harvard, nel 1988 e nel 1992 ha conseguito il master in informatica teorica a Berkeley. 
Ken Keeler si è laureato in matematica applicata a Harvard.

Ed ecco alcune loro famose vignette:

Homer Uomo Vitruviano

Un'immaginaria identificazione di Homer con l'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Celeberrima rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano che dimostra come esso possa essere armoniosamente inscritto nelle due figure "perfette" del cerchio che rappresenta la perfezione divina e del quadrato.



Homer cerca una sua immaginaria dimostrazione alla congettura di Fermat

«È impossibile separare un cubo in due cubi, o una potenza quarta in due potenze quarte, o in generale, tutte le potenze maggiori di 2 come somma della stessa potenza. Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina» (Pierre de Fermat)


H0mer da una soluzione.

Nonostante la dimostrazione di Andrew Wiles , il nostro amato Homer da una soluzione: reale o immaginaria?
Provate da voi. Prendete una calcolatrice, elevate 1.782 alla dodicesima potenza e sommate il risultato alla dodicesima potenza di 1841. Estraete la radice dodicesima del risultato e otterrete proprio 1922. Sembra proprio che Fermat avesse torto, dunque! In realtà, non è proprio così. Se ripeteste l’operazione con una calcolatrice un po’ più accurata, o semplicemente con un display più ampio, otterreste una risposta un po’ diversa.
La somma corretta è, in realtà 1922,0000000040876..... e si tratta di una delle cosiddette "near-miss solution", cioè equazioni molto vicine a quelle ritenute impossibili da Fermat


Le tre equazioni immaginarie di Homar

1) La prima formula predice la massa del bosone di Higgs, M(H0), e  contiene diversi parametri fissi, tra cui il pi greco (3,1415926), la costante di Planck (4,136 x 10-15 eV s), la velocità della luce (300.000 km/s) e la costante gravitazionale (6,67 x 10-11 m3 / kg s2). 
Inserendo i numeri della formula e facendo un po’ di conti si trova che la massa del bosone, secondo Homer-Shiminovich, dovrebbe essere pari a 775,9 GeV. 
Una predizione immaginaria e sbagliata (la massa reale dell’Higgs è di 126 GeV), ma neanche di troppo, tenendo conto che arriva quattordici anni prima dell’individuazione della particella e  che, dopotutto, Homer è uno scienziato amatoriale.

2)La seconda si riferisce ancora al celebre ultimo Teorema di Fermat, uno dei misteri più profondi della matematica moderna, la cui dimostrazione è rimasta insoluta per oltre quattro secoli, fino al 1995 con la dimostrazione di Wiles.
Provate ancora come avete fatto sopra. Riprendete la calcolatrice, elevate 3.897 alla dodicesima potenza e sommate il risultato alla dodicesima potenza di 4.635, estraete la radice dodicesima del risultato e otterrete 4.472. Allora Fermat aveva proprio torto!!!! 
Ripetendo l’operazione con una calcolatrice un po’ più accurata, o semplicemente con un display più ampio, si ottiene una risposta un po’ diversa. La somma corretta è, in realtà:
 3.987¹² + 4.365¹² = 4.472.000000007057617187512 
e si tratta sempre di una delle cosiddette "near-miss solution", cioè soluzioni molto vicine a quelle ritenute impossibili da Fermat. 
In ogni caso quella di Homer è solo "immaginaria", quindi Fermat può dormire sonni tranquilli. 

3)La terza equazione riguarda la densità dell’Universo, una grandezza fisica che ha implicazioni importanti per il destino dell’Universo stesso. Se Ω(t0) fosse davvero maggiore di uno, come scrive inizialmente Homer, vorrebbe dire che l’Universo imploderebbe sotto l’effetto della propria attrazione gravitazionale. 
Fortunatamente, però, Homer cambierà il segno della disuguaglianza, il che implica uno scenario completamente diverso, in cui l’Universo continua a espandersi all’infinito dopo il Big Bang (ammesso che ce ne sia mai stato uno). Il segno uguale corrisponderebbe, invece, al cosiddetto Universo Statico


Bart e il numero A113 

Se 666 è il numero della Bestia, A 113 è quello della Pixar. 
Questo numero magico e immaginario che compare in quasi tutti i film d’animazione, nati dalla felice unione tra la casa cinematografica Pixar e la Disney, ha una semplice e reale spiegazione: A113 è l'aula del California Institute of Arts dove i futuri disegnatori della Pixar studiavano character design e animazione.
Aggiungo una curiosità a proposito del numero della Bestia (reale o immaginario?). Forse non sapevate che "realmente" la somma dei quadrati dei primi sette numeri primi dà 666, numero della Bestia!
2² + 3² + 5² + 7² + 11² + 13² + 17² =
4 + 9 + 25 + 49 + 121 + 169 + 289 = 666


E dopo i Simpson ecco le immagini di un altro cartoon famoso della Disney:
"Donald in Mathmagic Land", Walt Disney’s educational legacy o "Paperino nel paese della matematica".
Un paese in cui Paperino vive situazioni tra l'immaginario e il reale, tra alberi con radici a forma di quadrato, tra fiumi che brulicano di numeri, tra la matematica pitagorica e la teoria musicale o tra i concetti quasi mistici del pentagramma e della sezione aurea, attraverso esempi di architettura e di opere d'arte come la Gioconda. 
Quasi 60 anni fa nel 1959, ma sempre attualissimo, Walt Disney ha pubblicato quello che è stato chiamato un "educational featurette". 
Un cartone animato (edizione molto bella e completa del film qui o in fondo alla carrellata) che in soli 27 minuti riesce a trasmettere visivamente, attraverso immagini tra l'immaginario e il reale, come la Matematica attraversi ogni aspetto del nostro mondo.
Un cartoon che si conclude con le immaginarie e infinite porte del futuro che solo la matematica potrà aprire perché come disse Galileo "La matematica è l'alfabeto con cui Dio ha scritto l'universo". 































Le immaginarie e infinite porte del futuro che solo la matematica potrà aprire.
"La matematica è l'alfabeto con cui Dio ha scritto l'universo" (Galileo Galilei)


E concludo questa carrellata con le immagini di un fumetto matematico "Ultima lezione a Gottinga" di Davide Osenda  (il fumetto integrale qui o in fondo alla carrellata) un misto di storia e matematica reali ma in un contesto a volte immaginario che si manifesta con un disegno essenziale ad acquerello, marchio di fabbrica dell'autore.
Il debutto di questo fumetto risale al Festival della Matematica di Roma del 2008 con l'appoggio e il riconoscimento dell'organizzatore Piergiorgio Odifreddi.
Tratta appunto dell’ultima lezione che il professor Fiz¹ tiene ad un’aula vuota, o meglio con il solo studente Alkuin Winler, nell’Università di Gottingen, in Germania, nel 1933 o 1934. “Ultima” perché il professor Fiz è l’ultimo docente di origini ebraiche ad essere preso (al termine della lezione, per strada) dai nazisti, nell’opera di pulizia etnica che coincise con l’azzeramento della scuola principe della matematica dell’epoca. 
L’Università di Gottinga, in Germania, era infatti diventata, agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, un centro di raccolta delle migliori menti matematiche del mondo e la sua decadenza è figlia dell’espulsione, da parte del Reich, dei matematici ebrei che all’epoca la animavano.

In questo caso, laddove non bastasse quanto fatto dal nazismo, si aggiunge un’altra colpa, certo non paragonabile alle altre (cosa si può paragonare ad un genocidio?), ma sicuramente grave: l’omicidio di un centro di cultura e sapere dove grandi matematici si dedicavano alla soluzione di problemi connessi ai numeri….e non solo.
Partendo dalla prima immagine degli austeri edifici dell’Istituto di Matematica di Göttingen fino all’ultima d’un volto riflesso nello specchio, le tavole in acquarello si snodano tra Matematica reale da una parte, con i ritratti di David Hilbert, di Georg Cantor, di Kurt Gödel, di Ernst Zermelo, e i riferimenti ai punti cruciali della matematica del Novecento: l’infinito e gli Aleph di Cantor, i Teoremi di Incompletezza di Gödel, l’Assioma della Scelta, l’Ipotesi del Continuo.....e visioni "immaginarie" dall'altra: come gli alberghi dalle infinite stanze per introdurre i molteplici infiniti cantoriani, grammofoni per spiegare i paradossi gödeliani, le carte da gioco per la prova diagonale......
























Un argomento dunque spinoso e difficile, ma affrontato con una competenza matematica, accompagnata dall' ottima pennellata, che ci stimola e ci porta verso ragionamenti che trascendono quasi la realtà matematica ed invadono l'immaginazione e la filosofia.

La carrellata finisce qui ma la matematica reale e immaginaria continua con la seconda puntata, tutta dedicata ai numeri immaginari.




Nota
¹ forse il nome Fiz può derivare dalla facile assonanza con il sistema FZ, quello di Fraenkel Zermelo (di cui Davide Osenda ha inserito anche il ritratto) 



Fonti

The Simpson
sito ufficiale
http://www.simpsonsworld.com/region-simpsons/
sito Italia
http://www.foxanimation.it/i-simpson

Donald in Mathmagic Land
Video Completo in italiano
Paperino nel paese della Matematica
Video Completo in inglese

Gottinga
Fumetto integrale dal sito di Andrea Plazzi





lunedì 2 novembre 2015

Mafalda e il paradosso dello zero

Leggendo un interessante scritto di Bruno D’Amore (Dipartimento di Matematica, Università di Bologna) "Lo zero, da ostacolo epistemologico ad ostacolo didattico" mi sono imbattuta in questo curioso dialogo, durante il gioco "Io dico un numero… Tu a che cosa pensi?", tra un Ricercatore (R) e Mafalda (M nome di fantasia di una bimba di 4 anni):





R: Numero quattro.
M: Io ho quattro anni.
R: Numero cinque.
M: Non lo so… però anche cinque caramelle.
R: Numero due.
M: I piedi che ho.
R: Numero dieci.
M: (allegrissima, mostrando le mani aperte) Le dita delle mani.
R: Numero uno.
M:  (dapprima pensierosa, poi si tocca il naso) Il mio naso.
R: Numero sei.
M: I colori.
R: Numero otto.
M: Otto signori.
R: Numero zero.
M: I bambini qui. Ci sono io e poi zero.
R: Che vuol dire zero?
M: Che non c’è niente. Vedi? (Mostra le due mani chiuse a pugno) Non c’è
niente.
R: Tu sai come si scrive il numero dieci?
M: Sì. Con uno zero e un uno. (Con le dita finge di scrivere per aria zero e
uno).
R: Allora zero vuol dire nulla?
M: No, zero vuol dire tanto.
R: Ma come, avevi detto che zero vuol dire niente, adesso vuol dire tanto?
M: No, non capisci… Zero vuol dire niente, ma vuol dire tanto. Se tu mi dai
zero caramelle mi viene una panciona grande grande.
R: Ma come, non capisco. Come fa zero a voler dire tanto?
M: Quando tu dici dieci c’è zero che vuol dire tanto. Sì, vuol dire tanto quello
zero.
R: Allora cento vuol dire tanto tanto?
M: No, non lo so cosa vuol dire quella parola.
R: Cento vuol dire un numero che si scrive con uno e poi zero e poi ancora un
altro zero. Allora è tanto o è poco?
M: Io non lo sapevo. Allora cento è più di dieci e allora zero vuol dire tanto
tanto.
R: E mille?
M: Come si scrive?
R: Con uno e poi zero zero zero. Qui come funziona?
M: Che allora zero vuol dire tanto tanto tanto perché è più più più di dieci.



Mafalda e lo "zero" - immagini tratte da 

Questa conversazione dimostra sorprendentemente non solo l'uso spontaneo dello zero da parte dei bambini fra i 3 ed i 6 anni  ma soprattutto appare molto evidente la doppia natura dello zero percepita da Mafalda, sia come cardinale del vuoto, del nulla, sia come cifra per accrescere i numeri.
E dimostra soprattutto come le due concezioni siano entrambe presenti, distinte e palesi e come Mafalda mostri grande destrezza nel maneggiare questi due aspetti, facendo una distinzione esplicita tra essi.
E' evidente che ci sia una totale consapevolezza dello zero come cardinale e come cifra, prima dell’ingresso nella scuola primaria.
Da altre conversazioni proposte si evidenzia che, anche se non tutti i bambini intervistati sanno scrivere i numerali da 1 a 9, quasi tutti sanno scrivere zero, per lo meno sanno che zero si rappresenta con “un tondo”. 
Nel rappresentarlo, però, è totale l’uso della forma oblunga corretta e non è affatto diffusa una forma rotonda a mo’ di circonferenza .
La maggior parte dei bambini sa associare lo zero a “niente”, inteso alle volte come assenza di azione o di oggetti ("Non si fa niente, zero", "Zero anatroccoli", "Zero soldi"....). 
Interessante, a questo proposito l’espressione di un bambino che, giocando a fare le somme, al momento di dare risposta alla 5 + 0 dice 5 e mostra una mano con tutte le 5 dita distese e l’altra mano con le dita a pugno per indicare zero.
Quasi tutti i bambini considerano lo zero un numero e molti, riferendosi alla scrittura dei numeri, dicono che lo zero serve per scrivere i numeri.
La quasi totalità degli intervistati dimostra di riconoscere lo zero in un numero scritto e mostra di saper scrivere numeri con lo zero.
Quasi tutti hanno mostrato di intuire il valore posizionale dello zero nella scrittura dei numeri.
Un certo numero di bambini dimostra di essere consapevole delle proprie capacità ("Io so come si fa", "Io so come si scrive"....).

A conclusione di queste osservazioni mi sorge spontanea una domanda: "Ma come è possibile che una bambina di 4 anni riesca così bene a percepire la doppia natura dello zero, sia come cardinale del vuoto, del nulla, sia come cifra per accrescere i numeri?"
Come è possibile vista l'idea della complessità dello "zero", data anche dal fatto che, come segno matematico, entrò con difficoltà nella cultura europea e che proprio questo doppio aspetto ha permesso allo zero di servire come luogo d’ambiguità fra un carattere vuoto e un carattere per il vuoto.
Lo zero rappresenta infatti la non presenza dei numeri 1,2, ...,9 e contemporaneamente produce l'intera progressione potenzialmente infinita degli interi.
Ma tornando ai bambini, sorprende ancora di più questa loro consapevolezza "naturale" dello zero riflettendo anche sul fatto che se per loro e per Mafalda è una vera e propria cifra, nel sistema babilonese antico il segno introdotto significava solo “assenza” senza alcuna funzione di numerale. 
Potrebbe sembrare una differenza da poco, ma non lo è e accettare un segno specifico che indica vuoto o nulla o assenza come una vera e propria cifra che indica un segno numerale, può essere considerato un vero atto di coraggio culturale e filosofico. 
Neppure i Greci, i più grandi matematici della storia, concepirono lo zero come numero (anche se non tutti gli storici sono concordi). I loro numeri partivano da due, dato che per essi "il numero era molteplicità" dunque uno non è un numero (e zero meno ancora, non ce n’era neppure l’idea).
Spesso si dice che questo fatto è connesso al terrore filosofico che i Greci ebbero del nulla, del vuoto, dell’assenza, concetto che entrava in forte contrasto con la filosofia parmenidea (l’Essere, unità e totalità, eterno, di cui si può predicare solo che “è”) che dominò il loro pensiero filosofico.
I bambini con la loro immediatezza e spontaneità non si preoccupano di temi filosofici e riescono a percepire concetti matematici che purtroppo poi proseguendo nella scuola vengono distorti o resi di difficile assimilazione.

Il tema del Carnevale della Matematica di novembre, ospitato da MaddMaths,  "I concetti indispensabili della matematica", mi ha fatto ripensare all'importanza dello zero, basilare e indispensabile per introdurre opportunamente l'insegnamento della matematica.
Opportunamente perché lo zero può essere considerato un ostacolo epistemologico.
Come ricordavo lo zero, come entità numerica posizionale, era assente presso tutte le popolazioni antiche, compresi Greci e Romani, ed apparve solo nel VII sec. d. C. in India o meglio in Cambogia, come rivelano recenti scoperte.


Alexander de Villa Dei nel 1240 circa (o 1225) scrive la Canzone dell’Algoritmo (Carmen de Algorismo) 
letta e riletta nei conventi e nelle università da chiunque si occupasse di aritmetrica
Prima significat unum; duo vero secunda;
Tertia significat tria; sic procede sinistre
Donec ad extremam venias, quae cifra vocatur.¹

Se cerchiamo di fare una veloce carrellata storica (maggiori informazioni qui) ci accorgiamo infatti che la prima comparsa dello zero risale all’epoca dei Sumeri, cioè a circa 3 mila anni fa. Era un simbolo della scrittura cuneiforme, formato da due incavi inclinati che indicava l’assenza di un numero.
Un simbolo simile era utilizzato di tanto in tanto anche dagli Egizi, ma soltanto tra altri numeri, mai all’inizio o alla fine di una serie. 
Le antiche civiltà cinesi non avevano uno zero vero e proprio, ma l’uso dell’abaco, il precursore della calcolatrice, fa supporre che comunque fosse noto il concetto di valore nullo. 
I Maya, al contrario, avevano un simbolo, ma non lo utilizzavano nei calcoli. 
Lo sviluppo dello zero in senso moderno va fatto quindi risalire alla cultura Hindu, con uno studio dovuto a Brahmagupta risalente al 628 d.C., anche se il padre dello zero è considerato universalmente il matematico arabo Muhammad ibn Musa al Khwarizmi (800 d.C.) che lo introdusse tra i numeri oggi noti come “arabi”.
Per quel che riguarda l'origine dello zero, usato in senso posizionale, devo però far notare che questa è stata recentemente messa in discussione.


Il tablet Gwalior dimostra che dal 876 d.C. un sistema posizionale con base 10 era diventata parte della cultura popolare in almeno una regione dell'India. 
Ciò che sorprende di questi numeri è che sono così simili a quelli che utilizza la civiltà moderna.

Finora si era creduto che la prima testimonianza dello zero posizionale, datata 876 d.C., fosse custodita in India, nel tempio indù Chatur-bhuja (dio a quattro braccia) della città di Gwalior, a sud di Delhi. 
Pare invece che il primo zero si sia palesato in Cambogia, precisamente del 683. 
A scoprire l’iscrizione K-127, citata da alcuni testi a cavallo tra Ottocento e Novecento ma poi scomparsa nel nulla, è stato il matematico e divulgatore scientifico americano di origine ebraica Amir Aczel, che si è messo sulle tracce di testimonianze sommerse per arrivare nella città di Angkor, l’antica capitale del regno Khmer, nel laboratorio di restauro dove l’Università di Palermo guida un progetto internazionale chiamato Trinacria  (Tr-aining In-ternational A-ction for C-onservation and R-estoration I-conographic A-ssets) che ha consentito di salvare oltre cento opere. 
E tra queste l’iscrizione con il numero d’inventario K-127, originariamente collocata sulla porta del tempio pre-angkoriano di Sambor, vicino al fiume Mekong. Un’iscrizione rituale di 21 righe in lingua Kmher antica che alla quarta riga riporta il numero 605. 



L’iscrizione K-127, originariamente collocata sulla porta del tempio di Sambor, vicino al fiume Mekong

Qualunque sia l'origine, l’uso dello zero rese subito i calcoli più rapidi e precisi, permettendo l’introduzione di regole di calcolo (i cosiddetti algoritmi) che consentivano di eseguire sulla carta operazioni prima possibili solo con l’ausilio dell’abaco. 
Il termine “zero”², che deriva dall’arabo sifr (“nulla”), fu usato per la prima volta in Occidente dal matematico italiano Leonardo Fibonacci nel 1202 e divulgato grazie al suo Liber Abaci, anche se la sua presenza in opere europee dei secoli XIII e XIV fu molto ostacolata e causa di furibonde lotte. 
Una piena accettazione dello zero come vero e proprio numero è tarda e si può forse far risalire al secolo XVI.

Tornando allo "zero" di Mafalda, dal punto di vista didattico non si deve perdere questa cognizione "naturale" dello zero del bambino, questa sua visione di numero “speciale”, ma saperla incanalare in una metodologia di insegnamento che non risulti epistemologicamente di ostacolo alla corretta e logica assimilazione concettuale.
Proprio come dimostrano i più recenti studi psicopedagogici dedicati all'apprendimento (vedi Daniela Lucangeli video), al contrario di quel che dicono gli "apocalittici", prima si comincia e meglio è, ma senza costruzioni formali ed innaturali.
Per una corretta didattica occorre lasciare esprimere in modo spontaneo, informale, ingenuo ogni concetto matematico che il bambino ha già fin da piccolo, senza bloccarlo, anzi, sfruttando proprio le sue competenze ingenue, informali e procedere così, con molta oculatezza didattica, facendo in modo che immagini mentali successive di zero si organizzino fino a diventare modelli stabili corretti al momento opportuno, quando il concetto di zero si sia ben organizzato nella mente e coincida con il risultato cognitivamente atteso.
Proprio come diceva con semplicità e naturalezza Mafalda, ("No, non capisci…Zero vuol dire niente, ma vuol dire tanto") lo zero è il “vuoto” in quanto esistente prima dell’origine ma è anche il “pieno” in quanto capace di portare l’origine stessa al suo completamento nel numero 10. La sua natura è l’essenza del concetto di nulla che comprende in sé l’essenza del concetto di pieno. 
Lo zero è quindi un paradosso: non è vuoto e non è pieno, bensì è l’insieme di tutte e due le cose e niente di entrambe.



Padiglione Zero è chiamata la struttura collocata all’entrata di EXPO 2015.
Zero come origine, inizio. Infatti si tratta di un vero e proprio percorso che attraversa la storia partendo dagli albori, un viaggio alla scoperta dell’uomo.
“Divinus halitus terrae” ossia “Il respiro divino della terra”, questa è la frase posta all’entrata del padiglione progettata dall’architetto Michele De Lucchi e realizzata dall’artista visivo Giancarlo Basili.


Citazioni

Scrive Lao Tse, nel Tao Te King, uno dei grandi libri dell’Antica Cina:
"...lo guardi e non lo vedi lo ascolti e non lo senti ma se lo adoperi è inesauribile....."
Questa è la descrizione del Tao, dell’Assoluto, ma sono parole che ben si adattano alla presentazione dello Zero, del Niente, un numero speciale, che richiede un’attenzione particolare, perché ci porta oltre la Matematica, verso concetti quali il Nulla e l’Infinito.

Un grande poeta indiano, Bihari Lal, alludendo a una donna molto bella, fece un paragone fra il punto e lo zero: 
"Il punto sulla sua fronte accresce la sua bellezza di dieci volte, proprio come un punto zero accresce un numero di dieci volte" 
Era l’inizio della matematica moderna.

Secondo il matematico russo Tobias Dantzig, autore de "Il numero, il linguaggio della scienza":
"....nella storia della cultura, la scoperta dello zero si ergerà sempre come una delle più grandi conquiste individuali del genere umano" 
Un libro che, scriveva Einstein, "è il più interessante sull’evoluzione della matematica che mi sia mai capitato tra le mani".

Un grande storico della matematica moderna, Karl Menninger scrive:
"…che tipo di folle simbolo è questo [lo zero] che significa proprio il nulla? Se è nulla, allora dovrebbe essere nulla e basta. Ma qualche volta è nulla e qualche altra volta è qualcosa… così ora zero diventa qualcosa, qualcosa di incomprensibile ma potente, se pochi “nulla” possono mutare un piccolo numero in uno grandissimo. Chi può capire questo?"

Ian Stewart, scienziato e matematico, invece scrive:
"… Nulla è più interessante del nulla, nulla è più intrigante del nulla e nulla è più importante del nulla. Lo zero è uno degli argomenti preferiti dai matematici, un autentico vaso di Pandora, per curiosità e paradossi…"




Note

¹ Il che significa che zero non è considerato al primo posto nella successione dei numeri naturali, ma è la decima cifra, quella che viene per ultima, dopo il 9.
² Fibonacci tradusse sifr in zephirus. Da questo si ebbe zevero e quindi zero. Anche il termine "cifra" discende da questa stessa parola sifr.