domenica 10 giugno 2018

L'arte della matematica...lettere tra Simone e André Weil

André Weil fu un giorno presentato a una conferenza come il più grande matematico vivente ed egli, risentito, sembra abbia ribattuto: 
"Sono semplicemente il più grande matematico"

Simone e André Weil - L'arte della Matematica - Adelphi - 2° edizione marzo 2018

André Weil, a parte gli eccessi di presunzione che spesso lo hanno caratterizzato, grande matematico lo fu davvero, uno dei più grandi del '900.
Io lo conoscevo soprattutto per la sua opera fondamentale "Teoria dei numeri", pubblicata da Einaudi.
Dopo un'introduzione storica dedicata in gran parte a Diofanto, Weil analizza quattro grandi autori (Fermat nel '600, Eulero nel '700, Lagrange e Legendre tra '700 e '800) che danno alla teoria dei numeri la forma che in gran parte è ancora quella che conosciamo oggi e su cui tuttora i matematici indagano.
Il famoso "ultimo teorema di Fermat", al tempo dell'uscita del libro non era ancora stato dimostrato, e così commentava, nella sua prefazione al libro, un altro grande matematico contemporaneo e medaglia Fields nel 1974, Enrico Bombieri:
"La caratteristica dell'opera di Weil è il rigore quasi monastico delle idee, unito a un'ampiezza di respiro che troviamo soltanto nei grandissimi matematici. Le dimostrazioni di Weil raramente sono complicate, e sono invece caratterizzate da economia di mezzi, sintesi e lucidità straordinaria di esposizione".
Weil si occupò infatti, in particolare, di teoria dei numeri e di geometria algebrica e fu uno dei fondatori del gruppo bourbakista, il più importante movimento matematico del Novecento.
Noto per alcuni aneddoti legati al suo carattere stravagante e sicuramente poco socievole, sosteneva infatti l'inutilità della divulgazione matematica:
"E' inutile parlare di matematica a chi non è matematico"
tanto più che il suo concetto di "matematico" era tranchant:
"Si può definire matematico soltanto chi ha scoperto almeno un nuovo teorema".
Insomma un personaggio a cui non avrei certo potuto attribuire pensieri come quelli da me scoperti in un carteggio tra lui e la sorella Simone Weil, in un libro regalatomi da un'amica, "L'arte della matematica"
Si perché in queste poco più di 100 pagine, molto interessanti anche per i riferimenti storici e filosofici, si percepisce il pensiero di Weil, forse meno noto, che dal carcere di Le Havre e di Rouen, in cui era detenuto per espiare la condanna di renitenza alla leva (André riteneva suo dovere "fare il matematico e non la guerra"), scrive alla sorella Simone, grande filosofa a sua volta, su un tema interessante per entrambi, seppure per esigenze diverse, sul significato di proporzione e incommensurabilità tra i numeri. 


André e Simone Weil (1922)

In questo confronto tra Simone Weil e André Weil si può riconoscere anche un dibattito che caratterizza ancora oggi la matematica.
Un confronto che si accende sull’antica questione della commensurabilità/incommensurabilità fra grandezze, tema centrale della matematica greca.
Da una parte c'è André che cerca di spiegare da matematico professionale, ma anche intellettuale, come lui faccia matematica, e perché. Dall'altra c'è Simone, abbastanza digiuna di matematica, ma filosofa profonda ed esigente, che nelle sue parole sembra cercare verità assolute.
Il tutto in otto lettere di Simone Weil (tra le quali una minuta, due abbozzi e un testo mai spedito) e quattro del fratello André, tutte scritte tra febbraio e aprile 1940.
Un confronto che fa emergere le differenze sostanziali di pensiero tra i due fratelli:
"... la matematica non è altro che un'arte; una sorta di scultura in una materia estremamente dura e resistente (come certi porfidi che a volte usano, credo, gli scultori)" 
afferma André Weil, a cui ribatte Simone:
"Tu parli di arte e di materia dura; ma io non riesco a concepire in che cosa consista questa materia. Le arti propriamente dette hanno una materia che esiste nel senso fisico della parola. La stessa poesia ha per materia il linguaggio visto come un insieme di suoni. La materia dell'arte matematica è una metafora; e a che cosa corrisponde questa metafora?" 

Simone Weil con, da sinistra a destra, André Weil, Henri Cartan, e Jean Delsarte (1937)

".......Visto che di tempo ne hai anche troppo - scrive nella prima lettera che apre il libro, del 10 febbraio 1940 (pag.12), Simone Weil all'amatissimo fratello maggiore - un'altra buona occupazione potrebbe essere metterti a riflettere sul modo di far intravedere a profani come me in che cosa consistano esattamente l'interesse e la portata dei tuoi lavori....." e una decina di giorni dopo insiste "Cosa ti costerebbe tentare? Ne sarei entusiasta". 
André, anche se a caldo le aveva risposto: 
"Quanto a parlare delle mie ricerche o di qualsiasi altra ricerca matematica ai non-specialisti, tanto varrebbe spiegare una sinfonia a dei sordi, mi sembra" (pag.18)
di fronte alle domande che lei continua a sottoporgli in un modo così fervido e acuto, finisce per cedere. 
Inizia così uno scambio che è un insieme di passione intellettuale, competenza ma anche e soprattutto affetto, che li porta anche a scontrarsi su punti basilari, come appunto la scoperta degli incommensurabili e il carattere della scienza greca. 
Lettere che dimostrano la grande capacità dei due fratelli di dialogare su Pitagora o sull'Odissea, di cardinali abili nelle strategie di corte o dell'importanza del sanscrito, di dissertare su Dedekind o su Gauss...
Certo entrambi sono capaci di parlarne ma dandone interpretazioni quasi diametralmente opposte e proprio in questo consiste il fascino del carteggio.
André teorico dei numeri vi vede il fallimento dei pitagorici, Simone, al contrario, ci vede una vittoria, una specie di via verso l’assoluto mistico.

Per Simone infatti la geometria greca misura il mistero.
"Possiamo chiederci perché i Greci si siano tanto applicati allo studio della proporzione. Si tratta senz’altro di una preoccupazione religiosa, e di conseguenza (dato che si tratta della Grecia) in parte estetica. Il legame fra le preoccupazioni matematiche da un lato e quelle filosofico-religiose dall’altro, legame la cui esistenza è storicamente attestata per l’epoca di Pitagora, risale certamente a molto tempo prima. Infatti Platone, che è estremamente tradizionalista, dice spesso: «Gli uomini antichi, che erano molto più vicini di noi alla luce...» (alludendo evidentemente a un’Antichità ben più remota di quella di Pitagora); d’altro canto affiggeva sulla porta dell’Accademia: «Nessuno entri qui se non è geometra », e diceva: «Dio è un perpetuo geometra». Fra i due atteggiamenti vi sarebbe contraddizione – il che è da escludersi – se le preoccupazioni da cui è nata la geometria greca (in mancanza di questa stessa geometria) non risalissero a un’Antichità remota; si può ipotizzare che provengano o dagli abitanti preellenici della Grecia, o dall’Egitto, o dagli uni e dall’altro. Del resto l’orfismo (che ha questa duplice origine) ha ispirato il pitagorismo e il platonismo (che sono in pratica equivalenti) al punto che ci si può domandare se Pitagora e Platone non abbiano fatto altro che chiosarlo. Quasi sicuramente Talete è stato iniziato ai misteri greci ed egizi, e di conseguenza, dal punto di vista filosofico e religioso, era immerso in un’atmosfera analoga a quella del pitagorismo. Penso dunque che la nozione di proporzione sia stata fin da un’Antichità abbastanza remota oggetto di una meditazione che costituiva uno dei procedimenti di purificazione dell’anima, forse il procedimento principale. È fuor di dubbio che questa nozione era al centro dell’estetica, della geometria, della filosofia dei Greci"
(dalla lettera, probabilmente del marzo 1940, di Simone Weil al fratello André pag. 38-39)

A lei così risponde André: 
".....quel che dici sulla proporzione suggerisce che agli inizi del pensiero greco si sia avuto un sentimento della sproporzione fra il pensiero e il mondo (e, come dici tu, fra l’uomo e Dio) di un’intensità tale che hanno avuto bisogno di gettare a ogni costo un ponte al di sopra di quell’abisso. Che abbiano pensato di trovare quel ponte (e solido, e incrollabile) nella matematica non è minimamente credibile. O almeno può essere stato vero per certe scuole; lo spirito di Eschilo, che era stato iniziato ai misteri di Eleusi, mi sembra abbastanza diverso. Ma si sa che con l’espediente dell’esoterismo si spiega tutto ciò che si vuole... Gli Indù invece hanno cercato in tutt’altra direzione: dire che l’uomo è identico a Dio, all’universo, ecc. dispensa evidentemente dal costruire un ponte. Mi domando tuttavia se per Platone (nel quale, mi pare, non c’è la minima traccia di angoscia, e forse per questo Nietzsche lo odiava tanto) la frase «nessuno entri qui...» non sia da interpretare, molto più piattamente, nel senso che la matematica è «una ginnastica della mente»: queste parole, che in noi evocano solo idee di una scoraggiante banalità, potevano avere un significato forte per chi vedeva nella ginnastica ben altro, rispetto a noi. Del resto tutto ciò non sarebbe che una sorta di trasposizione, su un piano più banale (com’è opportuno quando si tratta di quell’epoca) e più secolare, della tua ipotesi sulla proporzione come procedimento di purificazione, se con ciò intendi (come presumo) un procedimento, un mezzo in certo qual modo ausiliario. Ma vorrei sapere in maniera un po’ più precisa: un mezzo in vista di che cosa? Vi è traccia, in epoca arcaica, di pratiche ed esercizi mistici? "
(dalla lettera del 28 marzo di André Weil alla sorella Simone - pag. 73-74)) 


André e Simone Weil

Proseguendo nella lettura si coglie sempre più l'intreccio dei fili di filosofia e matematica che reggono la conversazione a distanza tra i due,  attingendo a un campo che eccede entrambe le discipline. 
Nelle lettere, malgrado l’iniziale ritrosia (quasi inutilità espressa da André) vengono invece affrontati problemi come la nozione di numero e di rapporto, di analogia e di proporzione, di commensurabilità e di incommensurabilità, che conducono inevitabilmente verso il sapere misterico, l’orfismo e il pitagorismo, soprattutto per Simone, persuasa che l’assillo della matematica greca fosse non il calcolo ma il raggiungimento della purezza dell’anima. 
"......'Imitare Dio' ne era il segreto e lo studio della matematica – ribatte Simone al fratello – aiutava a imitare Dio in quanto consideravano l’universo come sottomesso alle leggi matematiche, il che faceva del geometra un imitatore del legislatore supremo, un artista capace di rendere sensibile 'l’affinità tra la mente umana e l’universo' e dunque offrire 'il mondo come la città di tutti gli esseri dotati di ragione'....."

Davvero una lettura inaspettata e fascinosa che mi ha appassionato e impegnato nello stesso tempo per la profondità e la complessità dei temi toccati, in un epistolario che diventa quasi un sunto di "filosofia" e "trattato di matematica" da parte di questi due grandi del pensiero, André e Simone Weil, due personaggi chiave della cultura del Novecento, ma così diversi.
Alla rigidità con cui André si approccia alla matematica e alla sua idea che è impossibile fare opera di divulgazione di questa scienza esclusiva si contrappone lo spirito della sorella Simone, filosofa, mistica e scrittrice che sembra impegnata a interpretare gli scritti del fratello come arte e poesia. 
Due mondi apparentemente lontani e contrapposti dove però numeri e parole dialogano con passione ed emerge la forza con cui Simone difende le sue idee a cui si contrappone, ma con amore, il fratello André.
Due vite anche molto diverse. 
Simone, morta a soli trentaquattro anni, fu conosciuta al mondo solo successivamente grazie all’impegno editoriale di Albert Camus, che la definì  "l'unico grande spirito dei nostri tempi" e André, il grande matematico, che a Princeton tutti conoscevano e chiamavano il "mostro sacro" (se si toglie l'aggettivo si ha anche un'idea dell'opinione che molti suoi colleghi del prestigioso Institute for Advanced Study avevano di lui) che invece visse una lunga anche se travagliata esistenza conclusa nel 1998, all’età di novantadue anni.



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