domenica 13 gennaio 2019

Batracomiomachia e un'inedita vittoria dei topi

Questa volta la matematica non c'entra...ma c'entrano i topi!
Stavamo rientrando da una serata tanguera quando l'amico Vito, conoscendo anche la mia passione per i topi, mi ha ricordato un divertente poemetto di Leopardi, "Paralipomeni della Batracomiomachia".

Bronzo di Bjorn Okholm Skaarup

Paralipomeni della Batracomiomachia, che parolone!
Trattasi di un ampio poemetto satirico in ottave scritto da Giacomo Leopardi (1798-1837) durante il suo soggiorno napoletano, tra il 1831 e la morte del poeta nel 1837.
L’opera sarà pubblicata solo postuma nel 1842, a Parigi (anche per sfuggire alla censura politica), grazie all’intervento dell’amico Antonio Ranieri (1806-1888).
Paralipomeni perché si presenta come la continuazione di una storia.
Paralipomeni viene infatti usato, come già in ambito biblico, per indicare un'aggiunta di cose precedentemente tralasciate (dal greco paraleipómena, a sua volta da paralèipô, appunto omettere, tralasciare) nella Batracomiomachia, la Battaglia dei topi e delle rane, (dal greco bátrachos (rana), mys (topo) e máche (battaglia)), poemetto ellenistico eroicomico erroneamente attribuito a Omero. 
Di qui l'uso di chiamarlo Batracomiomachia pseudomerica che Leopardi aveva già tradotto anni prima. 
La traduzione da parte di Giacomo Leopardi uscì infatti in tre redazioni successive, nel 1815, nel 1921 e infine nel 1926.

Prima di raccontare brevemente la divertente trama di questo poemetto ci vuole però una premessa: la storia della Batracomiomachia pseudomerica, anch'esso un poemetto giocoso di 303 versi (testo integrale tradotto dal Leopardi nel 1815)


Rara raffigurazione della Batracomiomachia incisa da Giuseppe Patrini 
su disegno del pittore Francesco Zuccarelli, tratta dal frontespizio 
di un’edizione dello stampatore veneziano G.B. Albrizzi del 1744 
(Biblioteca civica di Belluno)

Inizia così:
"Un topo un dì, tra’ topi il più ben fatto,
Venne d’un lago alla fangosa sponda:
Scampato egli era allor da un tristo gatto
E calmava il timor colla fresc’onda;
Mentre beveva, un garrulo ranocchio
Dalla palude a lui rivolse l’occhio."

e così racconta:

"Il re delle rane Gonfiagote persuade il timoroso Rubabriciole, figlio del re dei topi Rodipane, a montare sulle sue spalle per visitare il lago, assicurandolo che non correrà pericoli. Tuttavia, appare all'improvviso un serpente d'acqua e Gonfiagote, per sfuggirgli, si immerge, facendo così annegare Rubabriciole. 
La guerra scoppia immediatamente, e proprio quando la vittoria sembra ormai dei topi, Zeus scaglia il suo fulmine, e allo stesso tempo i granchi, giunti sul campo di battaglia, annientano alcuni topi facendoli a pezzi, mentre altri fuggono in preda al panico"


Particolare della xilografia di Gianni Verna

La battaglia si svolge nell'arco di un giorno, contro i dieci anni di durata della guerra di Troia e la Batracomiomachia è uno dei pochi testi pervenutici integri di quel filone di poesia scherzosa che dovette avere non poca diffusione probabilmente in ogni epoca della letteratura greca e "La guerra dei topi e delle rane", in particolare, recupera tematiche, scene e motivi dell'epica arcaica sovvertendoli in chiave di parodia.
Il significato di questa parodia può essere quello di una guerra inutile che si scatena per motivi apparentemente futili o forse per ataviche incomprensioni. 
Un poemetto scherzoso che si pone alle origini di quella favola antica e popolare che vede al centro animali riconducibili sotto molti aspetti alla natura umana.


Miniatura dal Pontificale di Guillaume Durand (XIII sec.)

Dopo questa premessa ecco la trama del poemetto di Leopardi (qui il testo completo) a cui manca però il finale.

Inizia così:
Poi che da' granchi a rintegrar venuti
Delle ranocchie le fugate squadre,
Che non gli aveano ancor mai conosciuti,
Come volle colui ch'a tutti è padre,
Del topo vincitor furo abbattuti
Gli ordini, e volte invan l'opre leggiadre,
Sparse l'aste pel campo e le berrette
E le code topesche e le basette;
e così racconta:

"I topi (liberali), sconfitti dalle rane (borboniche) e dai granchi (austriaci), eleggono su base costituzionale il re Rodipane, di cui diventa primo ministro il conte Leccafondi, intellettuale progressista e impegnato in politica; i granchi intervengono per reprimere questo regime, di cui non possono tollerare l'esistenza, mettendo in rovinosa fuga i topi. 
Il conte Leccafondi allora va in esilio per cercare aiuto per la sua patria oppressa, incontra Dedalo, e scende persino nel regno dei morti a chiedere consiglio ai topi defunti, che però rispondono alle sue domande con una fragorosa risata. 
Alla fine essi gli consigliano di rientrare in patria e rivolgersi al generale Assaggiatore. Leccafondi riesce a ritornare a Topaia e dopo mille insistenze ad ottenere l'aiuto di Assaggiatore" 

Il poemetto si interrompe qui, perché come spiega Leopardi, al manoscritto da cui aveva tratto la storia manca la parte finale.
Ed ecco che torna in gioco l'amico Vito che, spinto dalla prof delle Medie inferiori a immaginare e  raccontare liberamente il finale, trovò logica e ovvia soluzione quella di un ritorno vincente dei topi:

"I topi sferrarono  un attacco navale contro le rane utilizzando le foglie galleggianti e le sbaraglarono!"



L'immagine, che rispecchia la conclusione di Vito,
 mi è stata data dall'amica Agnieszka Miruk

"Leopardi mette sarcasticamente in rilievo sia la violenza del potere autoritario dei granchi (e quindi del potere austriaco che soffoca l’aspirazione alla libertà del popolo italiano) che gli errori e le debolezze dei topi (e, in particolare, delle figure dei carbonari al canto VI). 
L’atteggiamento leopardiano è quello di distaccata disillusione nei confronti del mito del progresso e dell’ottimismo ottocentesco. 
Il rifiuto stesso del’assolutismo non si traduce in un’acritica esaltazione della libertà ma riconosce i limiti dell’azione liberale di Leccafondi ed è inflessibile nel giudicare molto negativamente le velleità degli intellettuali 'carbonari', che per Leopardi vedono nella causa della libertà solo un gioco di società, risultando così del tutto inutili ed inoffensifivi per il potere dei granchi 'austriaci'."


Se il poemetto leopardiano discute, sotto la veste di favola, gli avvenimenti politici del 1820-21 e il fallimento dei moti rivoluzionari, satireggiando gli Austriaci (rappresentati dai granchi, alleati delle rane), i Borbone (le rane), e gli insorti liberali napoletani (i topi), la conclusione del giovane Vito voleva essere invece una vittoria degli insorti e della libertà.




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