È l’ultimo giorno di ottobre e gli altri hanno dato forfait, ci siamo trovati solo in due: Virgilio ed io.
Si comincia a chiacchierare del più e del meno. I nostri argomenti sono leggeri, quasi frivoli, nessuno di noi due ha preparazione sufficiente per affrontare le questioni kültürali profonde: ascendenze astrali per la corretta interpretazione dell’oroscopo, la prossima edizione del Gi Effe (Grande Fratello), i grandi temi del pacifismo, dell’ambientalismo no global, Zosimo, i profondi pensieri di Celentano, ecc.
Ci limitiamo a qualche commento alla buona su “San Pietro”, l’ultimo sceneggiato trasmesso dalla Rai, sul diffondersi della cultura della menzogna e del rifiuto sistematico della verità anche di fronte all’evidenza. Io affermo che, pur di non recedere dalle convinzioni ideologiche proprie, o credute per fede partitica, si nega o si fanno affermazioni aberranti.
Poco prima della fine dell'antipasto, proprio su questa questione della verità e sul significato autentico del termine, riporto, a titolo di esempio, un episodio che mi ha visto coinvolto: discutevo recentemente con un amico circa i numeri primi e gli enigmi ancora irrisolti che li avvolgono: uno fra questi il fatto che siano o meno “infiniti”. Racconto quindi ad Virgilio di come l’amico mi abbia ricordato che esiste più di una dimostrazione matematica che dimostra la loro infinità, e di come io abbia ammesso con franchezza la sua ragione ed il mio torto.
E qui Virgilio, dopo avermi ascoltato, esprime un concetto inusitato:
i numeri primi, ma anche i numeri naturali, non sono “infiniti”, sono “indefiniti”.
Rimango per qualche secondo senza parole, cercando di risalire mentalmente al significato etimologico e sostanziale dei due termini, nonché di cogliere l’essenza del ragionamento che ne deriva.
Veniamo interrotti dal cameriere, che ci propone altri piatti; io avevo accarezzato l’idea di un fritto di calamari, ma poiché debbo restare lucido, viro su un’innocua mozzarella, rinunciando al vinello frizzante che aveva accompagnato l’antipasto.
Dunque, penso tra me e me, i numeri non sarebbero infiniti. Riaffiora nella memoria, dai tempi dell’università, la teoria di un fisico nucleare che sostenne la finitezza dei numeri: la logica del ragionamento, in termini assai poveri, era la seguente: i numeri son fatti per contare, per “numerare” appunto. I protoni sono i componenti minimi ed indivisibili della materia. I granelli di polvere e le stelle son fatti di atomi, e il nucleo degli atomi è fatto di protoni. Fatta una stima di tutta materia presente nell’universo, la quantità totale di protoni è un numero composto da circa ottanta cifre. Andare oltre questo numero è solo una finzione logica, perché non vi sarebbe più nulla da “numerare”.
L’”infinità”, - prosegue dal canto suo Virgilio - è una caratteristica che trascende la capacità umana di comprensione. L’”indefinitezza”, invece, ci conduce ai confini delle dimensioni dello spazio, del tempo e della quantità, poi avvolge la mente in una sorta di nebbia che impedisce di spingere oltre il pensiero. La mente è costretta a fermarsi.
Non trovo argomenti da opporre.
E mi ritornano alla memoria i versi immortali di Leopardi:
“… Così, tra questa
immensità, s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.”
Autore: Ugolino
“Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta, perché l’anima, non vedendo confini, riceve l’impressione di una specie d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende né concepisce effettivamente nessuna infinità.”
L'ultimo verso leopardiano del post di Ugolino mi ha ricordato queste poche righe dello Zibaldone (del 4 gennaio 1821) che, credo, riflettano perfettamente il pensiero di Leopardi sull’infinito, mettendo in luce appunto la distinzione tra “infinito” e “indefinito”.
"Verso dentro" opera di Tobia Ravà
Ma l'infinito o l'indefinito per un matematico o un fisico?
Partendo dal presupposto che la differenza sostanziale consiste nel fatto che un oggetto è indefinito quando non è possibile definirne le dimensioni che però sono proprie dell' oggetto in questione e che, al contrario, un oggetto è infinito quando non è possibile definirne le dimensioni perché queste non sono proprie dell'oggetto, si potrebbe rendere più chiara la distinzione con un esempio, considerando una linea e un filo.
Se tracciamo una linea verticale alla lavagna notiamo che avvicinandoci o allontanandoci da essa le dimensioni della linea (valutate relativamente alla nostra posizione) risulteranno scalate proporzionalmente alla nostra distanza dalla lavagna, mentre se ci mettiamo "col naso appiccicato alla lavagna", la lunghezza della linea verticale ci sembrerà infinita.
Sostituendo alla linea un filo ci accorgiamo che, in fisica, quando si parla di filo indefinito significa che stiamo valutando una qualche proprietà del filo ponendoci ad una distanza nulla dal filo, cioè facendo in modo da integrare tale proprietà tra -oo e +oo , cioè consideriamo il filo come se avesse lunghezza infinita, ma visto che un filo infinito non è fisicamente possibile che esista, implicitamente sappiamo che quel filo per quanto lungo possa essere sarà pur sempre finito. Riassumendo: il filo non lo possiamo considerare infinito perché non è fisicamente possibile che esista ma allo stesso tempo lo possiamo considerare tale a patto di porci a distanza pressocché nulla da esso, dunque questo filo è contemporaneamente finito e infinito, cioè indefinito.
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