lunedì 24 febbraio 2020

Lapalissiano...e la vera storia di Monsieur de Lapalisse

"Benedetti quei fortunati secoli cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell’inferno" 
(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)


Il 24 febbraio di 495 anni fa, era infatti l'anno 1525, gli eserciti del re di Francia Francesco I e del marchese di Pescara, al servizio dell’imperatore Carlo V, si scontrarono a Pavia, e tra gli illustri personaggi che parteciparono all'epica battaglia c'era Jacques de Lapalisse, ahimè poco conosciuto come condottiero di valore.
Jacques II de Chabannes de La Palice, più noto come Monsieur de Lapalisse, morto a Pavia il 24 febbraio 1525, è stato un militare francese e maresciallo di Francia e non certo una persona che amava dire ovvietà.


Ritratto di Jacques de La Palice 

Perché ricordarlo?

Intanto perché la vicenda, legata al suo nome, avvenne non in Francia bensì appunto a Pavia e perché Alberto Arecchi, architetto e storico pavese, si era fatto promotore, insieme alla sua Associazione Culturale Liutprand, di una petizione che intendeva spingere il Comune di Pavia a realizzare un monumento in onore di La Palice, ingiustamente ricordato soltanto per l'aggettivo "lapalissiano", che appunto deriva dal suo nome ed indica una palese tautologia, qualcosa cioè che è talmente evidente da risultare ovvio e scontato, se non addirittura ridicolo per la sua ovvietà.

Ma cerchiamo di ricostruire la vicenda 

Era un gelido febbraio del 1525, i lanzichenecchi imperiali e gli spagnoli, una guarnigione di 6000 uomini comandata da Antonio de Leyva  (un cognome che i lettori del Manzoni dovrebbe ricordare per una certa Marianna de Leyva, suor Virginia, la sventurata monaca di Monza) erano assediati a Pavia dai francesi, guidati dal re Francesco I, che avevano campo nel parco del Mirabello, alle spalle del castello di Pavia.
Il 24 febbraio 1525 i rinforzi imperiali guidati da Carlo di Lannoy, viceré di Napoli, e dal Connestabile di Borbone, diedero battaglia all'esercito assediante, di cui, oltre ai francesi, facevano parte anche gli alleati svizzeri, i lanzichenecchi di Anne de Montmorency , e le forze del capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere.
Il re francese guidò personalmente l'assalto della sua cavalleria, ma questa si trovò circondata dal grosso della fanteria imperiale, comandata dal marchese di Pescara, Fernando Francesco d'Avalos, al quale si era aggiunta l'avanguardia comandata dal marchese del Vasto, Alfonso III d'Avalos, che la massacrò. 
Mentre la celeberrima fanteria svizzera fuggiva, il re stesso veniva fatto prigioniero e questo successo fu conseguito anche grazie alla sortita della guarnigione di Pavia comandata da Antonio de Leyva che prese alle spalle l'esercito francese.
L’armata transalpina veniva così annientata e la maggior parte dei nobili cavalieri francesi (circa l’80% del totale della nazione) moriva in battaglia e, tra di loro, il prode seppur vegliardo La Palice.


Uno dei 7 arazzi¹ sulla battaglia di Pavia (1525), in cui trovò la morte il 
signor de La Palice, conservati al Museo di Capodimonte a Napoli.

Egli fu in servizio per quasi quarant’anni alla corte dei re francesi, Carlo VIII, Luigi XIIFrancesco I, e fu anche insignito del titolo di Maresciallo di Francia.
Condottiero valoroso, tanto da scendere in battaglia con chili e chili di ferraglia in sella al suo destriero alla veneranda età, per l’epoca, di 55 anni, fu un comandante amato e i suoi soldati gli dedicarono questo epitaffio, ignari di consegnare il Maresciallo di Francia alla storia, suo malgrado:

"Ci-git Monsieur de La Palice. Si il n’était pas mort, il ferait encore envie" 
(Qui giace il signore di La Palice. Se non fosse morto, farebbe ancora invidia).


Cattura di Francesco I
Particolare di uno no dei 7 arazzi¹ sulla battaglia di Pavia (1525)
in cui trovò la morte il signor de La Palice, 
conservati al Museo di Capodimonte a Napoli.

Su come siano andate le cose dopo, ci sono due versioni

Versione 1 
Quella, comunemente accettata e che mi raccontava il mio papà², è che, di bocca in bocca, di trascrizione in trascrizione, la "f" di "ferait" sia diventata una "s", e quindi "serait", "farebbe" trasformato quindi in  "sarebbe"
Tesi verosimile in quanto all’epoca si utilizzava la "s lunga" ("ſ"), che in corsivo si può facilmente confondere con una "f", e, in più, che "envie" si sia trasformato in "en vie", con uno spazio, con il risultato di un epitaffio lapalissianamente ridicolo:

"Ci-git Monsieur de La Palice. Si il n'était pas mort, il serait encore en vie" 
(Qui giace il signore di La Palice. Se non fosse morto, sarebbe ancora in vita)

Ed è con questa dicitura che l'epitaffio del nostro eroe è passato alla storia.

Nel 2013 le Poste francesi dedicano un francobollo a Jacques de La Palice

Versione 2
L'altra versione, che propone Alberto Arecchi, afferma invece che la frase sia stata modificata di proposito.
Nelle scuole primarie che si stavano diffondendo tra il XVII e il XVIII secolo si doveva storicamente parlare di guerra e ricordare purtroppo anche la disfatta del re Francesco I, che per la Francia fu terribile, rimasero sul campo seimila o forse diecimila uomini e cadde quasi tutta la nobiltà di Francia, senza però spaventare i bambini. 
Per questo motivo venne inventata una filastrocca che facesse ridere. 
Anche perché, aggiunge Arecchi, "l’errore sarebbe stato troppo banale. Qualcuno si sarebbe reso conto che la frase non aveva senso"


 "La chanson de la Palisse" di Bernard de la Monnoye 

Versione uno o versione due, sta di fatto che la frase di questo epitaffio risulta di un'ovvietà sconcertante, ma fu ripresa, proprio a cavallo del XVII secolo, dall’accademico, membro dell’Académie française, e poeta Bernard de la Monnoye in "La chanson de La Palisse", una canzone a lui dedicata con ovvio fine parodistico e piena di ovvietà, che non rende certo giustizia alle virtù militari di Jacques de La Palice, il nobile maresciallo di Francia.
Molto in voga all’epoca, la canzone cadde poi nell’oblio fino all’800, quando lo scrittore Edmond de Goncourt la recupera e conia il termine "lapalissade", per indicare una verità scontata.
Il termine in francese è un sostantivo, e si potrebbe da noi usare in luogo di un’ovvietà o un’idiozia, tipo "hai detto una lapalissade". 
Come ricorda il Dizionario De Mauro, il termine compare invece in italiano nel 1914, ma nella forma di aggettivo derivato, "lapalissiano".  

"La Chanson de La Palisse", Bernard de la Monnoye


(FR)
«Messieurs, vous plaît-il d'ouïr
l'air du fameux La Palisse,
Il pourra vous réjouir
pourvu qu'il vous divertisse.
La Palisse eut peu de biens
pour soutenir sa naissance,
Mais il ne manqua de rien
tant qu'il fut dans l'abondance.
Il voyageait volontiers,
courant par tout le royaume,
Quand il était à Poitiers,
il n'était pas à Vendôme!
Il se plaisait en bateau
et, soit en paix soit en guerre,
Il allait toujours par eau
quand il n'allait pas par terre.
Il buvait tous les matins
du vin tiré de la tonne,
Pour manger chez les voisins
il s'y rendait en personne.
Il voulait aux bons repas
des mets exquis et forts tendres
Et faisait son mardi gras
toujours la veille des cendres.
Il brillait comme un soleil,
sa chevelure était blonde,
Il n'eût pas eu son pareil,
s'il eût été seul au monde.
Il eut des talents divers,
même on assure une chose:
Quand il écrivait en vers,
il n'écrivait pas en prose.
Il fut, à la vérité,
un danseur assez vulgaire,
Mais il n'eût pas mal chanté
s'il avait voulu se taire.
On raconte que jamais
il ne pouvait se résoudre
À charger ses pistolets
quand il n'avait pas de poudre.
Monsieur d'la Palisse est mort,
il est mort devant Pavie,
Un quart d'heure avant sa mort,
il était encore en vie.
Il fut par un triste sort
blessé d'une main cruelle,
On croit, puisqu'il en est mort,
que la plaie était mortelle.
Regretté de ses soldats,
il mourut digne d'envie,
Et le jour de son trépas
fut le dernier de sa vie.
Il mourut le vendredi,
le dernier jour de son âge,
S'il fut mort le samedi,
il eût vécu davantage."
(IT)
«Signori, vi piaccia udire
l'aria del famoso La Palisse,
Potrebbe rallegrarvi
a patto che vi diverta.
La Palisse ebbe pochi beni
per mantenere il proprio rango,
Ma non gli mancò nulla
quando fu nell'abbondanza.
Viaggiava volentieri,
scorrazzava per tutto il reame
e quando era a Poitiers,
non era certo a Vendôme!
Si divertiva in battello
e, sia in pace sia in guerra,
andava sempre per acqua
se non viaggiava via terra.
Beveva ogni mattina
vino spillato dalla botte
E quando pranzava dai vicini
ci andava di persona.
Voleva per mangiar bene
vivande squisite e tenere
E celebrava sempre il Martedì Grasso
la vigilia delle Ceneri.
Brillava come un sole,
coi suoi capelli biondi.
Non avrebbe avuto pari
se fosse stato solo al mondo.
Ebbe molti talenti,
ma si è certi di una cosa:
quando scriveva in versi,
non scriveva mai in prosa.
Fu, per la verità,
un ballerino scadente,
ma non avrebbe cantato male,
se fosse stato silente.
Si racconta che mai
sia riuscito a risolversi
a caricar le pistole
se non aveva le polveri.
Morto è il signor de la Palisse,
morto davanti a Pavia,
Un quarto d'ora prima di morire,
era in vita tuttavia.
Fu per una triste sorte
ferito da mano crudele,
Si crede, poiché ne è morto,
che la ferita fosse mortale.
Rimpianto dai suoi soldati,
morì degno d'invidia,
e il giorno del suo trapasso
fu l'ultimo della sua vita.
Morì di venerdì,
l'ultimo giorno della sua età,
Se fosse morto il sabato,
sarebbe vissuto di più.»

Un monumento per Jacques de La Palice 

Si va beh ma perché dedicare un monumento commemorativo al nobile condottiero? 
Perché, come sottolinea Alberto Arecchi, Pavia è conosciuta, all’estero e sopratutto in Francia, grazie all’associazione con La Palice e al termine "lapalissiano", mentre dovrebbe ricordare la storica battaglia che esplose a nord della città, nella frazione di Mirabello, in cui morì il maresciallo di Francia La Palice. 
Ed è proprio lì, al Mirabello, che dovrebbe trovare posto il monumento al condottiero Jacques II de Chabannes de La Palice, sul suo destriero.


Jacques II de Chabannes de La Palice sul suo destriero

Filastrocca lapalissiana

Anche il grande poeta italiano Gianni Rodari, compositore di simpatiche filastrocche e poesie per bambini (ma non solo), prese ispirazione dalla Canzone di La Palisse per comporre una filastrocca. 
Il protagonista della storia, nella sua versione, è nientepopodimenoché³ Napoleone Bonaparte, e il suo testo fu poi musicato da un altro grande uomo della cultura musicale italiana, Sergio Endrigo.  
La filastrocca di Rodari, "Napoleone" risalente al 1974, è stracolma di frasi lapalissiane tipo: 

"Napoleone era fatto così
se diceva di no, non diceva di si
quando andava di là, non veniva di qua
se saliva lassù, non scendeva quaggiù
se correva in landò, non faceva il caffè
se mangiava un bigné, non contava per tre
se diceva di no, non diceva di si"... 

e Sergio Endrigo la cantava così:

Video della canzone "Napoleone" 
cantata da Sergio Endrigo



Note

¹ Nei sette arazzi sono raccontati gli episodi salienti della battaglia di Pavia, del 24 febbraio 1525, combattuta per il dominio in Italia tra le truppe del re di Francia Francesco I di Valois e quelle imperiali di Carlo V d’Asburgo.
Come in una sequenza cinematografica i sette arazzi vedono in scena i protagonisti della storica battaglia, spesso identificati proprio come in un fumetto grazie alle scritte intessute con fili d’oro e di argento su cavalli e armature.
Cavalieri, fanti, picchieri, mercenari svizzeri e lanzichenecchi, si scontrano in una battaglia che ha segnato il corso della storia: la cavalleria francese è massacrata da soldati semplici muniti di armi da fuoco, considerate vili e insidiose perché colpendo da lontano permettevano anche al meno prode di prevalere.
Alcuni personaggi guardando fuori campo ci invitano con il loro sguardo a partecipare agli eventi. Probabilmente è proprio a noi che è rivolto lo sguardo del re Francesco I nel momento in cui è catturato, perché il suo cavallo è stato ferito da un colpo di archibugio.

² Il mio papà (classe 1899) mi raccontava che tra gli allievi dell'Accademia Navale di Livorno, da lui frequentata, era diventato di moda prendersi in giro e raccontare ovvietà, usando un sostantivo, un francesismo molto chic "lapalissade" o un aggettivo da poco coniato "lapalissiano". 
Raccontandomi anche che derivava da un detto, che così lui mi riferì "Monsieur de Lapalisse qui avant de mourir etait encore en vie".

³ Nientepopodimenoché è una parola inventata da Mario Riva, star della televisione italiana fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del Novecento e conduttore della popolarissima trasmissione "Il Musichiere" (1957-1960).
Il significato è circa quello di "addirittura!" o "niente di meno!".
In realtà si tratta proprio della forma "niente di meno" rafforzata da un "po’" ripetuto due volte, e questo "po’ po’" si usa in italiano parlato per indicare una quantità notevole (in pratica: un po' = un poco - un po'po' = due volte poco, quindi tanto!) e ha un forte valore enfatico.



lunedì 3 febbraio 2020

Tavola pitagorica, un falso storico!

Per vedere ogni ben dentro vi gode 
l’anima santa che ‘l mondo fallace 
fa manifesto a chi di lei ben ode.                                  
Lo corpo ond’ella fu cacciata giace 
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro 
e da essilio venne a questa pace.
(Dante Alighieri - Divina Commedia - Paradiso (Canto X 124-129)     

Pietra miliare della filosofia medioevale può essere considerato il "De consolatione philosophiae" di Severino Boezio e molti pensatori, letterati e scienziati dell'epoca si formarono filosoficamente alla sua scuola, tra cui due grandi nomi Dante Alighieri considerato il padre della lingua italiana e William Shakespeare della lingua inglese.


Boezio e l'Aritmetica in un manoscritto tedesco del XV secolo © Wikipedia

Nel Paradiso di Dante, Boezio è uno degli spiriti sapienti del IV Cielo del Sole che formano la prima corona di dodici spiriti e ricorda le sue opere con i versi del X Canto del Paradiso (vedi versi 124-129 nell'introduzione), che così si possono tradurre:

Dentro vi gode l'anima santa che dimostra la fallacia del mondo a chi legge bene le sue opere (riferendosi a quelle di Severino Boezio), giacché ora vede il sommo bene.
Lo corpo da cui essa fu strappata giace sulla Terra nella basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro; e la sua anima giunse a questa pace dal martirio e dall'esilio terreno. 

Il periodo di composizione del "De consolatione philosophiae", che risale al 523 circa, vede infatti Anicio Manlio Torquato Severino Boezio rinchiuso in un carcere nei pressi di Pavia, dove attende l'esecuzione capitale che subirà nel 525.
Pur essendo stato il principale collaboratore di Teodorico, ricoprendo la carica di Magister Officiorum, nei suoi ultimi anni il re ostrogoto, divenne sospettoso di tradimenti e congiure, e Severino cadde in disgrazia, fu imprigionato con l'accusa di praticare arti magiche e quindi giustiziato a Pavia, città che ne custodisce appunto i resti nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, dopo che Papa Leone XIII ne approvasse il culto per la Chiesa.


Boezio in prigione, miniatura, 1385 © Wikipedia

Boezio, nel clima di rilancio della cultura che la pace rese possibile durante il regno di Teodorico, concepì anche l'ambizioso progetto di tradurre in latino le opere di Platone e di Aristotele.
Non si occupò solo di filosofia ma tradusse Euclide, nel "De geometria", nel quale vi sono anche la descrizione dell'abaco e l'esposizione dei calcoli aritmetici con esso eseguibili, e scrisse "De Istitutione Artmetica" (nel 500 circa), un adattamento delle Introductionis Arithmeticae di Nicomaco di Gerasa (c. 60 - c. 120) e il "De Institutione musica" (del 510), che si basa su un'opera perduta di Nicomaco di Gerasa e sulla Harmonica di Tolomeo.
Secondo le moderne indagini filologiche sembra invece che l’"Ars Geometrica" non sia di Boezio, bensì un’opera medievale risalente al secolo XI, e che raccolga contributi di vari autori.


Boezio insegna agli studenti, miniatura, 1385 © Wikipedia

Proprio da un'errata interpretazione dell'"Ars geometrica" deriverebbe l'errata dicitura della famosissima cosìddetta "tavola pitagorica".

Abaco e algoritmo

Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capire l'aria "aritmetica" che si respirava in quel periodo, facendo prima un passo indietro.  
Molti sono i documenti storici che attestano che le cifre, compreso lo zero , e la notazione decimale posizionale furono inventate dagli indiani nel V secolo d.C., che diffusero l’invenzione presso i "greci di Alessandria nell’epoca classica del Sincretismo. Da essi sarebbe passata ai Neo-Pitagorici (di cui è nota la propensione ad accogliere le idee braminiche), l’ultimo dei quali fu appunto Manlio Severino Boezio. Da Boezio l’avrebbe appresa Gerberto, il quale, a sua volta, l’avrebbe diffusa in tutta l’Europa, non esclusa la Spagna; quivi gli arabi l’avrebbero trovata e se ne sarebbero impadroniti.” 
(Gino Loria, Le scienze esatte nell’antica Grecia, Hoepli, Milano, 1914, pp. 800-807)
Loria si riferisce a Gerbert d’Aurillac (938-1003), filosofo e matematico francese che venne eletto papa con il nome di Silvestro II.
Siamo intorno all’anno 1000 e ci troviamo così di fronte ad un passaggio epocale nella storia, quando Gerbert d’Aurillac introduce le cifre indo-arabiche nell’occidente cristiano.


Esempio di abaco a bottoni di epoca romana
 Nell'esempio in figura si vede come rappresentare 
il numero 120512

Fino ad allora per i calcoli ci si era sempre affidati all'uso dell'abaco ¹ (prima abaco romano poi abaco medioevale), anzi a dir il vero l'abaco fu usato in Europa a partire dai periodi degli antichi greci e babilonesi, come riferisce Erodoto (lo stesso storico greco afferma come già gli egizi lo conoscessero) e anche nella Roma antica si impiegavano tali strumenti, usando tavolette di metallo con scanalature parallele su cui scorrevano palline mobili oppure tavolette di legno coperte di sabbia. 
Anche presso i popoli orientali erano in uso attrezzi simili: in Cina sono stati ritrovati abachi risalenti al VI secolo a.C., che utilizzavano come calcoli bastoncini di bambù.
Nel tardo medioevo comparve un abaco a colonne e a linee orizzontali rappresentanti successive potenze di 10 che deve la sua introduzione agli 'apici' di Boezio.


 Gli 'apici' di Boezio in un manoscritto latino dell’ XI secolo
Cifre ‘indo-arabe’ dette ghobār

Il significato del nuovo abaco medioevale detto anche "mensa pythagorea" ("tavola pitagorica" o "arco pitagorico") era mutato profondamente rispetto all’antico abaco romano, in quanto esso, oltre a fornire uno strumento di computazione, consentiva ormai di rappresentare un numero per mezzo di 'apici' (numerali), a meno dello zero, realizzando un notevole passo verso il trasferimento del principio di posizione dall’abaco alla rappresentazione scritta dei numeri.


La Scacchiera di Gerberto con i gettoni che hanno inciso un valore numerico 
che va moltiplicato per l’indice della posizione (unità, decine, centinaia) 
espressa in alto in cifre romane. 
Si può notare però che le cifre sui gettoni non sono espresse in caratteri romani, 
ma nel nuovo sistema posizionale di origine indiana. © Archeo CPU

Fu un vera rivoluzione e l’aritmetica prenderà il largo grazie all’eredità indiana della numerazione posizionale ed alla nuova notazione numerica dovuta all'uomo, Gilberto, di grande talento, matematico e di profonda cultura, al punto che la sua sapienza gli portò, inevitabilmente per quei tempi di oscurantismo, accuse di stregoneria.
Questo passaggio epocale porterà a un lento ma inevitabile declino dell'abaco e delle tavole a lui collegate per un uso sempre più consolidato dell'"algoritmo", termine con cui inizialmente era chiamato il sistema di numerazione scritta posizionale nei paesi latini, e dei nuovi metodi di calcolo basati appunto sul nuovo sistema posizionale.
Quest’ultimo rese obsoleto l'uso dell'abaco principalmente per le difficoltà di eseguire i calcoli con il vecchio sistema di numerazione additivo.


"Carmen de Algoritm" 
Alexander de Villa Dei nel 1240 circa (o 1225) scrive la Canzone dell’Algoritmo 
letta e riletta nei conventi e nelle università da chiunque si occupasse di aritmetrica
Prima significat unum; duo vero secunda;
Tertia significat tria; sic procede sinistre
Donec ad extremam venias, quae cifra vocatur.² 

Infatti, il nuovo sistema di numerazione posizionale permetteva sia di rappresentare i numeri con maggior economia di simboli, sia proprio di semplificare i procedimenti del calcolo scritto, e pertanto vanificò il vantaggio dell'abaco, decretandone, in Europa, la definitiva scomparsa. 
Definitiva scomparsa che, come detto, fu comunque lenta, come lenta fu la definitiva introduzione del nuovo sistema numerico 'indiano' e le "tavole per contare" (vale a dire gli abachi a gettone dette anche "mense pythagoree") continuarono a sopravvivere in Europa fino al XVIII secolo soprattutto tra i commercianti, i finanzieri, i banchieri e i funzionari statali, o per verificare che i calcoli scritti fossero esatti, fin quando la Rivoluzione francese ne proibì l’uso.
Nacquero, come sempre due scuole contrapposte: gli algoritmisti che si contrapponevano agli abachisti, l’immortale scontro tra innovatori e conservatori.


Immagine contenuta nell’opera Margarita Philosophica 
di Gregor Teisch (1503)  © Wikipedia

Nella illustrazione qui sopra, tratta dall’opera enciclopedica "Margarita philosophica" realizzata da Gregor Reisch nel 1503 è rappresentata questa competizione.
Illustra in forma allegorica la diatriba fra abachisti (rappresentati da Pitagora) e algoritmisti (rappresentati da Boezio). Una figura femminile personifica l’Aritmetica e, dallo sguardo rivolto verso Boezio alla sua destra, si arguisce la preferenza data al calcolo tramite le nuove cifre indiane.
Comunque con la distinzione fra abaco e algoritmo si concluse la disputa fra abachisti e algoritmisti, vale a dire fra coloro che sostenevano i vantaggi del calcolare per mezzo dell’abaco oppure con il sistema di numerazione scritta.
Anche se non va dimenticato che l’abaco è il progenitore di tutte le macchine calcolatrici meccaniche ed elettromeccaniche, fino al primo colosso elettronico uscito nel 1946, l’ENIAC


Errore di trascrizione

L'abaco nell’Ars Geometrica, denominato "mensa pythagorea", è quindi da attribuire ai neo-pitagorici della scuola alessandrina, cui apparteneva appunto Boezio.  
Nel riprodurre successivamente il manoscritto dell’Ars Geometrica, un copista, per errore, sostituì all’abaco neo-pitagorico la comune tavola di moltiplicazione, di aspetto molto simile, conservando però per quest’ultima il nome di "tavola pitagorica", che invece designava l’abaco neopitagorico. 
Questo perché gli amanuensi non erano studiosi delle diverse discipline, copiando e basta, non per forza dovevano conoscere quello che c'era scritto. Copiare è facile e non serve quasi mai ragionare.
Fu proprio quello che capitò per colpa di uno di questi trascrittori, piuttosto sbadato e sicuramente non avvezzo alla matematica, che scambiò per errore un abaco pitagorico (sconosciuto ai più) per una tabella della moltiplicazione, che invece probabilmente conosceva, in quanto già diffusa al tempo. 
In Europa, infatti, la prima tavola moltiplicativa di cui si abbia notizia certa fu opera di Vittorio d'Aquitania, il quale la realizzò intorno al 450, ma con cifre romane. 
Fatto sta che i libri successivi a quello sono stati copiati con questo grossolano errore e a noi è arrivata la tavola della moltiplicazione con il nome di "tavola pitagorica". 


Quaderno Scolastico Liberty Anni '20 con tavola pitagorica e tabella lezioni

Quindi, la tavola di moltiplicazione che tutti noi conosciamo, fin dalle prime classi elementari (le famose esecrate tabelline), come "tavola pitagorica" non deve il suo nome né a Pitagora né ad alcuno dei suoi seguaci, bensì soltanto a un errore di trascrizione. 
Un bello sbaglio che ha in qualche modo condizionato tutti gli studenti  per secoli!
Così, come molto spesso le fake news riscontrino più attendibilità delle verità storiche, ancor oggi si perpetua questo falso storico e si continua ad attribuire a Pitagora la paternità della tavola di moltiplicazione che mai si sognò di ideare.
Potremmo anche considerarlo un insegnamento per capire quanto si debba essere attenti a non sbagliare, senza copiare e basta, e quanto il cercare sempre di ragionare sia un ottimo vantaggio!

Le tabelline

Cerchiamo di definire cos'è questa tabella moltiplicativa.


Matrice simmetrica moltiplicativa con aggiunta dello zero

E' una matrice simmetrica di numeri naturali caratterizzata dal fatto che il valore presente nella posizione individuata dalla riga i e dalla colonna j è il prodotto di ixj.
Perché simmetrica?
Essendo utilizzata per eseguire moltiplicazioni con il sistema numerico decimale e godendo il prodotto di due numeri naturali della proprietà commutativa (ixj = jxi), è immediato notare che è una matrice quadrata che ha la proprietà di essere la trasposta di se stessa, come viene definita appunto una matrice simmetrica nell'Algebra lineare.
Vale a dire che le cifre che la compongono sono simmetriche rispetto alla diagonale principale (nord/est - sud/ovest), che va dall'angolo in alto a sinistra a quello in basso a destra. 
In questa diagonale (evidenziata in azzurro nella figura) si trovano i quadrati dei numeri corrispondenti, quei numeri che, come si vede, si ottengono moltiplicando un numero per se stesso. 
In ambito scolastico essa ha solitamente 10 righe e 10 colonne (11 se contiene anche la cifra zero) e ogni riga e/o colonna di tale matrice è chiamata "tabellina". 
Per esempio, la riga (o colonna) corrispondente al quattro è detta "tabellina del 4",  corrispondente al sette "tabellina del 7" e così via.

Volendo usare un linguaggio prettamente matematico, questa tabella potremmo definirla una "tabella di Cayley", detta anche tavola di composizione, che è una tabella a doppia entrata che descrive la struttura di un gruppo finito. 
La tabella, che deve il nome al matematico britannico Arthur Cayley , è così definita:
Dato un gruppo (per noi le cifre da 0 a 10, definite ì e j in riga e colonna) e un'operazione binaria (la moltiplicazione nel nostro caso), per ogni coppia di elementi del gruppo, l'intersezione della riga i e della colonna j (in cui sono riportati gli elementi del gruppo) contiene il risultato del prodotto ixj.


In definitiva possiamo chiamarla "tabella moltiplicativa", "tavola di moltiplicazione", "tavola delle tabelline" o più pomposamente "tabella di Cayley" ma non chiamiamola "tavola pitagorica" per evitare di perpetrare questo falso storico che vorrebbe attribuirne a Pitagora la paternità.




Note

¹ Il termine "abaco" deriva dal latino abacus, tramite la forma genitiva ἄβακας del greco ἄβαξ, che proviene a sua volta dall'ebraico חשבונייה, "polvere". Infatti il termine originario si riferiva ai primi abachi costituiti da una tavoletta su cui spargere polvere di sabbia.
Va anche ricordato che nel Medioevo in Europa alla parola abaco si attribuiva solitamente il significato di aritmetica in senso generale, e a riprova di questo vi è il titolo di un importantissimo libro di Leonardo Fibonacci, "Liber abbaci", pubblicato nel 1202. 
² Il che significa che zero non è considerato al primo posto nella successione dei numeri naturali, ma è la decima cifra, quella che viene per ultima, dopo il 9.

Fonti

Immagini 
© Wikipedia
© Archeo CPU
http://matematica.unibocconi.it/articoli/la-tavola-pitagorica#11UP